Cuori

Rosso scarlatto… pezzetti di cuore o cuore a pezzi? 

Bah in fondo non fa differenza, l’uno o l’altro sempre li stanno, nascosti tra ricordi ed emozioni irripetibili, affacciati sul freddo di una via alle 23.45 di un giorno come un altro, confusi tra sapori sapidi di un tempo troppo breve per essere vita e contemporaneamente troppo intenso per farne serenamente a meno. 

Frammenti di unicità, orgasmi di una mente confusa, fuggiti dal seno e dal senno, ingombranti e pasticcioni, incoerenti e contraddittori, in un continuo battere e ribattere senza un motivo reale, spasmi incontrollati guidati esclusivamente da un sentimento talmente forte da fare aritmia. 

Non c’è ragione per il troppo, arriva all’improvviso e non ti abbandona più, impari a conviverci, lo lasci dilagare, colorare e spegnere allo stesso tempo notti insonni e giornate malandate e stracolme di vuoto, senza chiedersi più il perché ma solo il “come faccio?”.  

La mancanza è la benzina che alimenta un fuoco che non ha nessuna intenzione di spegnersi nonostante tonnellate di sabbia gettate tra le fiamme, il tutto alla continua ricerca di aggettivi da aggiungere a parole ripetute all’infinito.

Sono gli aggettivi a dare significato, è la voglia di svegliarsi accanto ad un abbraccio più abbraccio di tutti gli abbracci a scalfire la risolutezza di coloro che si credono - sbagliando - avvezzi all’autosufficienza. 

Emozioni, consapevolezza, desiderio, bisogno, bellezza, sensualità, profumi, sapori, amore… amore si, pure quello, impulsi a cui non sai dare un senso e tantomeno un perché, ma di cui conosci assolutamente il nome, che non pronunci più, per paura di sciuparlo tanto è prezioso.

Spiegazioni che non servono, perché non serve spiegare che cosa è successo quando tutto è successo, nel bene o nel male, con tanto vigore dentro di noi. 

Era tutto molto Bello ed era semplicemente molto Bella, la cosa più Bella e sbagliata nel momento peggiore, ma Bella come solo l’incredibile sa essere, quell’incredibile capace di fare rima con felicità e libertà.



Ma davvero?

“Luì ma davvero ti sei innamorato di lei?”

“Agata…  ma davvero me lo chiedi?”

“Sì, davvero te lo chiedo”

“Agata sì, io mi sono innamorato di Lei. Mi sono innamorato perché Lei era bella… libera… spregiudicata… incontrollabile ed intensa come mai nessuna mai”

“Solo per questo?”

“E ti sembra forse poco Agata?”




Cinquant’anni

 


Troppo tardi per tutto, soprattutto se a cinquant’anni ci arrivi quando hai da poco passato gli undici…

The Joker

E l’uomo si accorse che la solitudine l’aveva definitivamente avvolto, come solo il fumo sa fare, nel momento in cui capì che non si possono controllare in eterno le emozioni, soprattutto se queste si insinuano, nemmeno Batman sa il perché, due millimetri dietro il ventricolo destro.

E fu solo allora che accettò l’ineluttabilità del destino, fu solo allora che rinunciò alla pugna, fu solo allora che lasciò che il muro delle occasioni definitivamente perse si ergesse a imperitura protezione del niente, fu solo allora che imparò a lasciar scorrere il tempo rinunciando al volerlo fermare.



L’irragionevolezza

“Sai Agata qual è la verità? La verità è che a qualcuno può capitare di passare una vita ad immergersi nel ragionevole, nel  razionale, può capitare di imparare l’arte dei calcolatori, dei riflessivi, dei risolutori,  sì risolutori, risolutori di problemi propri e soprattutto di problemi altrui o creati da altri.

Può capitare di passare una vita a cercare di capire, a macinare esperienza ed esperienze, a tranquillizzare chi ci sta a fianco; si impara a distinguere ciò che è bene da ciò che è male, si diventa bravi bravissimi ad anticipare, a programmare, a risollevarsi e risollevare, ad inseguire, ad insegnare… oh si anche ad insegnare.

Poi ad un tratto, così, senza rendersi conto del perché, del percome, del perquando e tanto meno del perquanto, si resta intrappolati nell’irragionevolezza.

Arriva così all’improvviso la maledetta, subdola e fantastica, magnetica e totalizzante. Non sai distinguerla subito, ad un tratto ti accorgi che c’è, l’annusi e credi di poterla controllare, la sottovaluti, quasi la snobbi, un po’ la schifi, la giustifichi, la giustifichi col destino, l’amore e il tempo, ne diventi preda e vittima, ti lasci crogiolare, assorbire, cambiare e ne esci irrimediabilmente sconfitto.

Sai che fa male, che è male, che non merita di essere vissuta, ma non sai fermarla. L’irragionevolezza.prende il sopravvento, vince, nega l’evidenza che ti viene regalata dai fatti.

Eh si Agata, sono arrivato alla conclusione che l’irragionevolezza è troppo sexy e seducente per essere gestita  e soprattutto lo è per le anime inquiete, tormentate dal destino, vittime dell’incapacità di trattenere il bello e anche per questo irrisolte”

“E quindi?”

“E quindi nulla, puoi solo lasciare che ti attraversi cacciando tutto il resto che il caso ti offre, inizi a slalomeggiare tra vizi e virtù, a cercare ristoro in una solitudine autarchica, ti difendi ergendo muri di inaccessibilità, lasciando che vittime ignare lastrichino i giorni che passano e vai avanti così…”

“Che prospettiva di merda Luì”

“Eh già, ma è così che funziona, ed è così che funziona in modo particolare per i cacciatori del troppo, quel troppo in cui almeno una volta, purtroppo, e ripeto purtroppo, è capitato di imbattersi”



“Posso prenderti la mano?” “No”

“Lasciati prendere la mano”
“Si ma non troppo”
“Perché?”
“Perché non è una mano ciò che voglio”
“E cosa vuoi allora?”
“Vorrei te”
“Me?!”
“Si te”
“Ma te non ti sembra troppo?”
“Troppo cosa?”
“Troppo tardi, troppo tanto, troppo diversi, troppa noia, troppa distanza, troppo uguale, troppo celebrale tu, troppo inquotidiano, troppo niente, troppo troppa ostinazione, troppa illusione, troppo solo fisico io, troppo sempre uguale, troppa idealizzazione?”
“No”
“Solo no? Non ti sembra poco?”
“No, no perché ho sempre detto troppo e stretto poco, ora vorrei  soltanto stringerti”
“Passi dalla prolissità alla sintesi, non ti si addice e comunque è tardi e lo sarebbe stato anche prima, sarebbe stato tardi pure prima si, perdi tempo e ti fai del male ora”
“E’ mio”
“Cosa?”
“Il tempo”
“Quindi puoi gettarlo via? Ti sembra giusto?”
“Mi sembra inevitabile”
“Ti sei fissato”
“Forse non mi conosci davvero, anzi forse non vuoi conoscermi davvero”
“Dici?”
“Ipotizzo?”
“È perché non vorrei?”
“Ah a questo dovresti rispondere tu. Non sono onnisciente io, ma credo che tu possa immaginare di saper già tutto di me e quel tutto non ti piace e non vale la pena andare oltre”
“Immaginare? Quindi solo lo immagino di sapere già tutto di te?”
“Si”
“Sei sicuro?”
“Si di questo si”
“Perché?”
“Perché non ti sei mai fatta vivere davvero e non sono semplice da sapere se mi usi solo a metà”
“Mi dai la mano, così come si fa tra vecchi amici?”
“No”
“Dai! Perché no?”
“Perché non siamo amici… ma soprattutto non siamo vecchi”



La stanza sul lago

La stanza sul lago e la sua vista al tramonto.

Aspetta che mi affaccio un attimo va, vediamo cosa fa, si tuffa? Non si tuffa? Non è che magari a contatto con l’acqua poi si spegne?!


Al momento si riflette, la più vanesia delle stelle lì a bruciare tutto il giorno finisce con il coricarsi esausta, l’ho sempre sostenuto io, il troppo bruciare stufa.


E gli ulivi? 

Poco più di qualche settimana ancora e saranno pronti, pronti per lasciarsi scuotere da signori avidi di olio e bruschette, perché è la bruschetta la vera ragione che spinge l’uomo alla spremitura, ad ognuno la sua, ad ogni uliveto la propria compagnia festante, poi ad ogni giara la propria casa e ad ogni casa la propria famiglia o quasi tale.


Una brezzolina speziata sta accarezzando i cipressi, poi quella pianta curiosa che non conosco, alta, slanciata, un po’ strafottente, le foglie rigogliose e i fiori bianchi, fosse una donna la paragonerei ad un’aristocratica inconsapevole con le infradito, i  pantaloncini di jeans sdruciti e stracciati e i capelli spettinati. 

Splendida… da innamorarsene all’istante, così com’è capitato all’oleandro di fianco, ha perso le foglie dietro a quel sentimento sconosciuto. 

Devo chiedere alla signora dell’albergo come si chiama, così da non portarne mai una nel mio giardino, nemmeno per errore.


Ora è il momento di scendere, attraversare questo pezzetto d’incredibile passato incastonato nel silenzio e nel sapore di buono.


Fa fresco, il Lugana compensa,  ho deciso di farlo sposare con la tagliata di tonno e la misticanza, con assaggi a margine di pizza margherita.


Stavolta non siamo andati a caso, un minimo di piano lo abbiamo elaborato, ma giusto un minimo… domani invece come sempre faremo caso al caso!




Storie finte di donne vere

Un quartino di Sangiovese caldo della casa, che poi dici quale casa? 

Riflessioni sbilenche e stanche sui fatti della vita, che poi dici quale vita? 

Aspetta un attimo va che mi appoggio qui, proprio qui, qui all’angolo di questo tavolo che sa di briscola e osteria e storie finte di donne vere.

Eh sì, storie finte di donne vere, perché è così che succede alle volte, ci si ubriaca di un quartino di storie finte, storie mai tue, inventate, sconosciute, immaginate, scellerate, fotografate, cancellate, disegnate, colorate, mal vissute, perculate, svaporate, sol pensate, ingannate, raccontate. Che poi dici, raccontate da chi?

E il contorno? Che fanno quei signori fuori fuoco sullo sfondo? Che guardano? Chi guardano? Che vogliono? Che pensano? Aspettano? Chi aspettano? E soprattutto chi sono? Si chi sono loro ed in fondo chi sono io davvero?

Aspetta un attimo va che mi appoggio qui… proprio qui… qui all’angolo di questo tavolo che sa di briscola e osteria.



Tre bianchi, uno blu, tre bianchi. Il vento spazzolava la battigia e spettinava le menti e i ciuffi

La verità è che non riuscirà mai a perdonarsi, non riuscirà mai a perdonarsi per essersi lasciato usare in quel modo, ne era consapevole, molto consapevole, era tutto così evidente, ora come allora, ma lui ha lasciato fare, si è inzerbinato, ha traghettato, ha lasciato che dignità e orgoglio fossero sopraffatti dalla vacuità di un sentimento mono-direzionale.
No l’errore è stato ed è imperdonabile.

Il vento spazzolava teso la battigia, Aziz spegneva gli ombrelloni uno ad uno, un blu, tre bianchi, un blu, quelle stupide gocce di pioggia cadevano a tratti, a volte insistenti a volte evanescenti, solo pochi irriducibili si ostinavano comunque  sugli sdrai, avvolti in teli colorati che venivano utilizzati come impermeabili poco abili. 

I DJ dei ciringuito continuavano a sparare musica a caso, un afro cubano al 26, un pop-rock al 27, Raffaella Carrà che arrivava non era chiaro da dove, un caos melodico mica da ridere, a cui facevano da contorno pantaloncini, felpe, canotte, infradito e snickers, tutto insieme, conseguenza di questo meteo che confondeva temperature ed idee.

Ad un tratto la scena fu occupata da un gruppo di amici che festeggiava l’addio al celibato di uno di loro, 23 settembre la data fissata, sabato, il promesso sposo (lo sposando) aveva una parrucca viola, occhiali da sole scuri, una maglietta personalizzata e grandi manette in plastica. Si sedette con loro, iniziò a parlare chiedendo spiegazioni sull’assenza della madre nell’ambito di quello che per lui doveva essere naturalmente un terzetto, ma soprattutto voleva essere rassicurato per la scelta: “Dai dimmi se faccio bene? Posso ancora scappare!” - “Fai benissimo, tranquillo, sono certo, e te lo dico io che di queste cose ci capisco!” - “Allora grazie, sono più tranquillo adesso e giuro, normalmente non sono così!” - “Ma non preoccuparti vai bene anche così, sei un simpatico naturale!”.

In fondo era tutto vagamente surreale, pensieri serissimi viaggiavano in mezzo a situazioni al limite dell’assurdo, spacciatori sull’autobus che lasciavano il posto a sedere ad anziani e bambini, gruppetti di tatuatori indiani che sfanculeggiavano controllori che non controllavano, un bimbotto napoletano di 136 kg con un finto cappello di Gucci, una finta tracolla di Gucci, finte scarpe di Gucci, finti pantaloncini di Gucci, una t-shirt della Coop.

Il mondo è bello perché è avariato.

In mezzo a questo variegato zoo umano Luì rifletteva su ciò che gli era successo negli ultimi mesi, su ciò che aveva perso, anzi su ciò che non aveva mai avuto per essere precisi, ed inghiottito dal vuoto non potè non soffermarsi almeno per un attimo su quello che aveva lasciato andare perché sempre e chiaramente troppo uguale a tutte le ragioni che ne decretarono la fine qualche anno prima. L’errore questa volta è stato pensare (anche solo per un istante) che potesse essere diverso, ma le persone non cambiano, e incontri fugaci in periodi tormentati, confusi e già occupati dal niente non portano nulla di buono, per nessuno. Quindi assolutamente meglio così. 

Mancava ancora una mezz’oretta all’ora di cena, sta cosa dei due turni non era proprio l’ottimo, soprattutto il non poter cambiare in corsa li infastidiva, in questo modo non potevano né liberarsi dei molesti vicini di “tavolo” drogati di Coca Cola né conoscere meglio i fratelli col ciuffo, sedicenni spettinati che incuriosirono molto Giulia fin dal loro arrivo e che ormai era certo frequentassero lo slot 19.15-19.45. Giulia e Luì decisero che la prossima volta, a Parigi, avrebbero studiato meglio la situazione prima di prendere decisioni strategiche: “papà dobbiamo seguire il piano, non andare a caso”.

Era una vita che Luì faceva piani a caso, o per caso, o a cazzo che forse è più appropriato per descrivere la realtà, ed una volta fatti manco li seguiva, e se capitava era comunque contro la sua volontà, per causa di forza maggiore diciamo. Difficilmente avrebbe cambiato modo di essere alla sua età, e aggiungerei purtroppo.



Ormai non ci si può fidare più nemmeno dell’Okitask

Si svegliò in piena notte, il dolore alla testa stava diventando sempre più intenso ultimamente, delle due l’una o l’età o il tipo di vita sregolata che stava conducendo. Santo Okitask tardava a far’effetto, probabilmente l’abuso stava provocando assuefazione o forse il ketoprofene del signor Dompé si era rotto di risolvere i suoi problemi e voleva lanciare un messaggio chiaro: “mo basta!”.

D’altronde i “mo basta” gli stavano arrivando addosso sempre più frequenti, da ogni parte piovevano i “ma ti sei rincoglionito?”, “oh ma ci sei?”, “Ma dici davvero?”, “Cosa vuoi buttare via tutto?!”, “Tu? Così? Proprio tu?!?”. Forse era questa gragnuola di condivisibili e retoriche esortazioni a provocargli l’emicrania,  e comunque sì, effettivamente un po’ (anzi toglierei il po’) si era rincoglionito.

L’Alda questa sera aveva deciso di far felice il Giorgio (per chi non si ricorda chi sono sti due invito a leggere qualche racconto fa - nda), complice il fresco sopraggiunto (o più probabilmente l’assenza prolungata di Fabrizio che se ne stava in vacanza con la moglie a Porto Corsini) si era concessa, anche con una certa enfasi, tutto il vicolo esultò alla notizia, felici per il Giorgio e riconoscenti con l’Alda, “dai suvvia, in fondo se la meritava!” fu il leitmotive delle settimane a venire.

I motivi per cui un uomo si può rincoglionire sono tanti, ma fondamentalmente sono riconducibili a tre maxi categorie: le donne, il lavoro, il PD che vince le elezioni. Il lavoro lo capisco, chi non è nato miliardario deve confrontarsi con questo dettaglio quotidianamente, e ci sta che problemi in questo ambito diventino problemi tout court; sul perché il PD che vince le elezioni provochi lo status descritto credo non ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni; sulle donne bisognerebbe invece aprire un capitolo a parte che richiederebbe almeno ventisettemilasettecentoquarantanove storie su questo blog, e non sarebbero comunque esaustive, ma non c’ho voglia, e allora mi limiterò a dire un paio di cose ché voglio dare comunque senso a questo post.

Gli uomini fondamentalmente sono semplici, si lo so è banale come concetto, lo dicono tutti, lo dicono sempre e da sempre, la storia dei due neuroni uno sopra e uno sotto che diventano due sotto, il sì che è sì e il no che è no, mangiare-bere-dormirei e via di luoghi comuni, ma in realtà gli uomini sono semplici perché fondamentalmente sono sinceri, sinceri anche quando mentono, lo sai prima che mentiranno, chi lo fa te lo dice in anticipo se hai orecchie per ascoltare, te lo fa capire “guarda io a volte racconto cazzate, così eh, a fin di bene, non sempre, a volte”, e te lo dice ridendo che tu non ci credi o ci credi e poi te lo dimentichi o fai finta di dimenticarlo.

La donna no, la donna non è semplice, e non è semplice perché non è sincera. Ora lo so che si scateneranno i “buuu” “machista” “cosa dici?”, qualcuno azzarderà anche un “fellone!!!”, ma è così. La donna, nella stragrande maggioranza dei casi non ti dice tutto, lo pretende da noi ma lei non lo fa, non ti dice ad esempio che in tema di istinti ragiona esattamente come un uomo e pure della peggior specie (in un’apoteosi di parità di genere!); che non si fa capire appositamente così riesce a giocare su tre tavoli contemporaneamente (non pensate male, mi riferisco al senso più ampio del termine); che a suo avviso non dire equivale a raccontare la verità, chiaramente solo se “a non dire” è lei.

Prendete la minchiata che la donna tradisce col cuore e con la testa, l’uomo con “la pancia”, ma ci crede davvero qualcuno a questa cosa? Tra l’Alda e il Fabrizio di sopra che differenza c’è? Solo una: il Fabrizio prima o poi si farà beccare, l’Alda no.

Sia chiara una roba, l’insincerità appena descritta non è necessariamente un difetto, è una scialuppa di salvataggio, un modo per uscire vincitrice da ogni situazione, per proteggere se stesse e la propria discendenza, per prendere il meglio fin che serve da ogni situazione, per godere, per avere il controllo, come biasimarle?

Ora generalizzare è sbagliato ma semplifica, poi le eccezioni non fanno proprio nessuna regola, sono solo eccezioni, casi particolari, cose così, che il più delle volte sembrano tali ma sono solo truccate bene.

A sto punto qualcuno di voi si chiederà perché in tutta questa storia non ho preso in nessuna considerazione la povera moglie del bastardo Fabrizio, che ora se ne sta lì a Casal Borsetti in villeggiatura ma prima quando faceva caldo, eh?! Come la mettiamo che il marito si rinfrescava con l’Alda? La moglie del Fabri si chiama Gloria, fa la parrucchiera, è la parrucchiera preferita del Giorgio, lui ha iniziato ad aprirsi con lei ad ogni shampoo un po’ di più, prima gli raccontava dei suoi problemi famigliari, poi del lavoro, poi ha iniziato a chiedere consigli sull’ultimo jeans acquistato, più sul boxer, poi ha chiesto se conosceva un insegnante di pilates e lei ha risposto: “sono cintura nera di pilates”. Da allora ogni giovedì pomeriggio, dalle 18.00 alle 19.45 Giorgio fa pilates con la Gloria a casa della Gloria, è molto sereno dopo gli esercizi. 

Ah dimenticavo, chiaramente non lo hanno raccontato a nessuno, così in fondo non sembra poi tanto vero ma solo normale, in fondo sono solo amici.

L’emicrania non passa più, Okitask non sei più quello di una volta nemmeno tu.




Ma non ti imbarazza cenare solo?

“Ma non ti imbarazza uscire a cena da solo?!”

Glielo chiese così a bruciapelo che non poté che risponderle altrettanto velocemente: “Ma no, sinceramente ora non mi imbarazza, non mi piace eh, sia chiaro, ma no, non mi imbarazza, non più… qualche mese fa magari sì, oggi mi sembra di nuovo normale”

“Scusa ma se non ti piace perché lo fai?”

“Beh mangiare è un bisogno primario, senza non potrei sopravvivere”

“Fallo a casa no?”

“Non cambia molto, sempre solo cenerei, e magari lo farei pure in mutande, che mi sembra disdicevole al limite del trasandato, e sinceramente trasandato è peggio di solo”

“Non ti ci vedo tu che ceni in mutande”

“Perché non sei mai venuta a cena a casa mia”

“Non mi hai mai invitata”

“E non lo farò”

“Stronzo. E perché? Guarda che sono di compagnia e porto sempre qualcosa da bere”

“Perché da me, oltre a me, non cenerà più nessuno. Al massimo ti invito a merenda”

“È una nuova regola? 

“È una nuova regola”

“Mi sembra una cagata, nemmeno i tuoi amici inviteresti?”

“Loro sì, e se ci sono loro puoi venire anche tu, ma ho solo quattro sedie, se ci sono tutti uno di voi dovrebbe portare una sedia da casa propria, o dovremmo rubarla all’enoteca in fondo alla via, o quattro stanno a tavola e uno (che non sarei comunque io) sul divano”

Cenare in uno non è imbarazzante, è semplicemente brutto, e tra le altre cose ti senti un po’ egoista, soprattutto se il locale è pieno e la coppia di turno se ne sta lì ad aspettare il tavolo, in piedi, tra l’ingresso e l’attacapanni, sempre a spostarsi per fare entrare i prenotati, o per far passare i camerieri che devono servire quelli seduti fuori. In alcuni locali l’attesa è di fianco al bagno, e lì è peggio.

E tu, seduto, a sorseggiare sangiovese, a pizzicare formaggi, a leggere un po’ il menù e un po’ il libro che ti porti appresso, poi il caffè, il Vermut… insomma ti senti odiato, odiato da lei che non sa portare il tacco dodici e fatica a stare ferma, odiato da lui che ha fame e sa che lei si spazientirà, sia perché non ha prenotato e questo gli verrà rinfacciato per tutta la sera, sia perché se a lei fanno male i piedi poi diventa intrattabile. E allora tu, che sei buono e comprensivo, inizi a strafogarti, finisci il calice di vino alla stessa velocità di un alpino con la cirrosi, salti il dolce e chiedi un caffè ristretto che si fa prima sia a farlo che a berlo.

Quando poi sarà il momento di alzarsi, pagare il conto e uscire, loro non te ne saranno grati, ti guarderanno sottocchi, con quell’espressione livorosa e superiore di chi pensa: “ma guarda sto sfigato”, tanto che la voglia di sedersi di nuovo e ordinare un GinTonic con le patatine fritte diventa quasi insopprimibile, ti assale, ti fa accelerare i battiti, e non lo fai solo perché il cameriere ha già sbarazzato e le patatine da aperitivo ti fanno cagare, sopratutto dopo aver mangiato una selezione di fossa con le confetture.

Al che ti porti fuori dal locale, accendi un sigaro anche se non fumi, indugi qualche minuto prima di abbandonare tutti, e per un attimo li guardi. Se ne stanno seduti uno di fronte all’altra, lui al posto che fino a poco prima era stato il tuo, sguardo fisso sul menù, nessuno dei due apre bocca, nemmeno il più classico del “tu che mangi?”, e quando Fabio arriva e chiede “avete deciso?”, lei ordina un antipastino vegano, lui un castrato con i pomodori confit,  poi due calici di bollicine, e appena restano soli si lanciano sui rispettivi smartphone. 

E tu non puoi far altro che pensare: “Cazzo, potevo ordinare anche una sambuca baby ghiaccio e mosca a sto punto”.

Non va sempre così, non tutti vivaidDio sono soli in coppia, esistono pure quelli che stanno insieme davvero, che si guardano negli occhi sorridendo, che si tengono la mano, che si raccontano a vicenda, che si sbaciucchiano non appena Fabio scompare in cucina a portare la comanda ad Antonio lo chef, che sono felici di essere lì in due e non in uno più uno, che ridono di gusto, che si prendono un po’ per il culo a vicenda, che brindano col ciocco, che “lo sai che è bello essere qui insieme, dopo facciamo l’amore?!”. Esistono sì, mi è capitato di incontrane alcuni, soprattutto a primavera.

“A primavera (che poi era solo maggio -nda) il mondo è bello e invitante di colori e ancora sugli alberi ci sono solo fiori..”, cantava Cherubini, io dico che pure ad ottobre il mondo può sembrare bello, a luglio meno, anche se queste sono considerazioni da meteoropatici, non semplici da comprendere per le persone che non sanno (cioè tutte tranne due).

“Ok a casa tua no, ma a cena fuori mi ci porti?”

“Oh sì, volentieri, sono piacevole sai per passare una serata!”

“E se poi ci provo?”

“Faresti un errore, un errore piuttosto inutile, soprattutto per te”

“E perché? Sono piacevole dopo cena”

“Certo, non ne dubito, anzi ne sono sicuro, qualcuno apprezzerà!”

“Allora cos’è, non ti piaccio?”

“No, soprattutto non mi piaccio più io, è diverso”

Si sta alzando il vento, tutto attorno poco fa è stato un macello di temporali e grandine, meglio rientrare velocemente che stare qui a scrivere minchiate, meglio farlo prima che la tormenta arrivi pure da ste parti, ma le cicale stanno ancora a frinire nonostante l’ora che si sta attardando, venere si è messa a luccicare sotto ad una luna che è ridotta ad uno spicchio, non è male.

“Poi un giorno me lo racconterai perché non vuoi più nessuno a cena da te”

“Ma non c’è nessuna spiegazione da dare, semplicemente non si può, è occupato”

“Da chi?”

“Da nessuno, ma un nessuno talmente ingombrante che non lascia spazio a nient’altro”



I dettagli, la morale, i limoni.

Caldo faceva caldo, molto caldo, direi caldissimo, troppo caldo pure per fare l’amore (questo è ciò che sosteneva l’Alda con il Giorgio, i signori del cortile interno lato vicolo, non credo fosse questa la vera ragione della ritrosia dell’Alda però chi sono io per sostenere il contrario?), troppo caldo financo per lamentarsi, sembrava luglio inoltrato, sembrava estate, sembravano le 23.03 e ancora si boccheggiava, come i pesci quando nuotano in pochi centimetri di limo.

La mia nuova vicina di casa chiacchierava con Alexa, lo faceva in inglese, anche se credo sia polacca (la vicina, non Alexa), un dialogo serrato, un po’ metallico a dire il vero, ma sembrava tutto sommato una conversazione amichevole, io personalmente non ci capivo una mazza, ma il mio rapporto con l’inglese è ostico da sempre, e sia chiaro che non è colpa di Alexa ma solo della mia idiosincrasia per la lingua di sua Maestà (cazzo questa avevo voglia di scriverla da almeno quindici anni!!).

Sulla via di fronte passeggiavano ragazzotti testosteronici che muovevano da e per il Rione Rosso, la settimana è quella del Palio, mi è sempre piaciuto un sacco questo periodo, la città e le persone si colorano, rosso-verde-nero-giallo-durbecco (ma che colore è durbecco non l’ho mai capito🤣), qualcuno lo incontri anche inondato di toni fucsia, ma lo fa per vezzo o anche solo per partito preso, molto LGBTQ plus, anche se in realtà non se lo fila nessuno. Quest’anno non andrò al Palio, mi spiace molto, ma fa “troppo troppo”, non sono pronto.

Loris e Jenny si sono messi a limonare di fronte al portone di casa mia, sedicianni (volutamente tutto attaccato) di saliva e inesperta impazienza, ma con un sacchissimo di energia e voglia di stravincere. Io li stimo molto, però se magari stravincessero due metri più a destra riuscirei ad uscire di casa senza doverli far rimuovere dai vigili. Dopo sei minuti e otto volte  “scusate permesso dovrei uscire” lei mi nota, alza il sopracciglio sinistro, arrossisce e divincolandosi per un attimo da quella presa adolescenziale: “oh scusi signore..”.

Non riesco a non pensarlo: “Signore?! Signore?!!?!?! Ma signore un par di balle!!!!”. Lo penso ma non lo dico, perché in fondo c’ha ragione lei, non per l’età eh, sia chiaro, ma per i modi. Un lord, anzi un piccolo lord come diceva qualcuno, soprattutto fuori, ed a pezzi in realtà, un pezzo sì ed un pezzo no, ma fa niente, sempre di lord si tratta, almeno credo.

Una volta uscito è un attimo e mi ritrovo in corso Matteotti deambulante, o deambulando🤔… insomma andavo per di là, la via porta ancora i segni del disastro di maggio, segni profondi e cattivi, li senti (non li vedi soltanto, li senti!) nonostante la notte avvolga tutto l’intorno… … ad un certo punto incontro un cane che porta a spasso la sua padrona, sudata peggio di un bevitore di Vernelli alle cinque del pomeriggio; poi è la volta della sciroccata con le tette rifatte - almeno tre taglie oltre la media della città - che parla costantemente in viva voce a qualsiasi ora del sempre, incazzata, abbronzata, volgare, brutta, tatuata e con i congiuntivi che sono un optional, che uno poi si chiede:  “Ma con chi diavolo parla? Che anche lei sia un’amica di Alexa?!”.

So che a prima vista questi dettagli che vado raccontando possono apparire inutili, quasi superflui e forse ridondanti, ma in realtà sono i dettagli che fanno l’insieme, il tutto, il quadro, noi stessi siamo una somma di dettagli, pensateci bene. 

E poi i dettagli fanno “la morale della storia”, anche di questa, e voglio spiegarvela (brevemente) che altrimenti pensate che io racconti balle.

Limonare è bello, non solo a sedici anni e non solo davanti ai portoni di case altrui; fate l’amore anche quando fa caldo, perché pure fare l’amore è bello, a volte (rare) perfino troppo bello che poi non guarisci più; il cane fa compagnia e ti porta a spasso volentieri; quando passeggiate non parlate al telefono in viva voce che alla gente non gliene frega una minchia se “lei tiene le corna e gli sta bene”; i congiuntivi sono sexy; le polacche parlano l’inglese meglio di me; Alexa esiste e vive in via XX settembre, Siri è sua cugina; le tette grosse oltre la media stroppiano; anche se non andrò al Palio tiferò Giallo.

Ed in chiusura dico che scrivere rilassa, un po’ come correre, anche se a volte (non questa) può essere molto faticoso, sempre un po’ come correre. 

Il difficilissimo sarebbe scrivere correndo, prima o poi ci proverò.



Il lieto fine

Mi chiedevi un lieto fine, beh intanto cominciamo col dire che il lieto fine è una contraddizione in termini, se finisce non è lieto, a meno che non si stia parlando di una colonscopia senza sedazione a metà luglio, che effettivamente vedere la fine una certa gioia in ogni caso la procura.

Questo detto bisogna poi aggiungere che quando si racconta una storia a pseudo lieto fine si rischia di (s)cadere nella banalità, nella scontatezza o se va bene di essere assunti alla Harmony come correttore di bozze, il che effettivamente potrebbe essere pure piacevole se ti pagano bene.
Comunque al di là di questi sofismi da Bar Stazione io non so se sono capace di raccontare una storia a lieto fine, fatico anche a raccontare storie a lieto inizio, perché la verità è che gli inizi lieti davvero si contano sulle dita di una mano, molto più frequenti sono gli inizi per forza, gli inizi perché non c’era altro da fare, gli inizi sbandati, o gli inizi finti tali (che significa che sembra che si, ma in realtà non è iniziato proprio niente).
A me viene molto più facile raccontare storie a metà, o storie nel mezzo, o meglio ancora pezzi di storie che meritano di essere raccontati (i pezzi intendo) perché diversi da tutto il resto, o almeno diversi da tutto il resto che è capitato a me, e diversi pure da quello che credo possa essere capitato ad altri (sono presuntuoso alle volte).

Insomma storie così, che ad un tratto ci si trova in un ristorante, vista strada-controviale, pini marittimi illuminati, fuori stagione, una cameriera russa col sorriso impostato da russa, una tagliata al sangue senza contorno che se lo sono dimenticati (doveva essere cicoria), e una sensazione di “vacca boia che roba”.

Fuori faceva freddo, l’omino delle rose aveva una sciarpa verde acqua, non piazzava una rosa manco a schiantare, a ottobre i fiori non vanno evidentemente.

Banale direte voi, cosa c’è di tanto eccezional particolare in una cena? 
Beh in quella c’era l’allure della commensale, che faceva pendant con ciò che meglio rappresenta il concetto di “lieto”. 
Un lieto “mescolato non agitato” (sì lo so non è mia), quel lieto che va ben oltre lo scompenso ormonale che spesso annebbia il cervello maschile, un lieto che ti capita ogni 22 anni e non sai dargli un nome, un lieto da vasca idromassaggio, si ecco tutta questa roba qua che potrei andare avanti per ore ma mi sono già rotto le balle e quindi a sto punto cercate di capire bene da soli quanto lieto fosse.

L’omino delle Rose non era del Bangladesh, era di Forlì, aveva perso il lavoro un anno prima, era stato licenziato per non aver piazzato un milione di fondi comuni ad un vecchietto di 94 anni, da allora vendeva fiori e shottini al gin in riviera.
La sciarpa verde acqua gliel’aveva regalata Sonia, la sua ancora fidanzata nonché ex collega, lei preferirebbe lui si dedicasse a qualcosa di più remunerativo delle rose, ma amava lui e amava il gin e fu per questo molto comprensiva.

La cena a base di tagliata e “vacca boia che roba” stava volgendo al termine, il vino pure era quasi finito, lui aveva uno strano friccichio giusto due centimetri sotto il cuore, non era un’angina ma proprio un friccichio, una cosa mai sentita-mai vista-mai provata. 
Ma non se ne preoccupò, almeno non allora, lo avrebbe fatto diverso tempo dopo, ma questa è un’altra storia che non verrà raccontata qui, qui si sappia solo che quel friccichio è una delle robe più belle ed incredibili e fantasmagoriche e stratosferiche e uau che si possano provare, meglio anche delle scaloppine al limone e del caffè aromatizzato al cioccolato. 
È giusto che si sappia.

Artemio, così si chiamava lo spacciatore di rose, oltre ad essere di Forlì era pure triste, quella domenica era il suo compleanno, non voleva essere lì, ma giusto una settimana prima gli avevano consegnato un container di merce, doveva assolutamente venderla prima di mattina, il gin stava evaporando e le rose appassendo, non poteva permetterselo.
Continuava perciò a passeggiare a vuoto, avvolto nella sua sciarpa, a caccia di qualche innamorato d’accatto, di un play-boy dei poveri, di un single con la sindrome romantica, di bambini con in albergo un criceto da sfamare, insomma di potenziali consumatori delle sue mercanzie odorose.

Distratto dal suo infruttuoso passeggiare non si accorse che sull’altro lato della strada stava una ragazza mora intenta a fissarlo, due occhi di brace, un sorriso dolce come la marmellata Zuegg alle castagne, i guanti di pelle e tra le mani stringeva un pacco bianco con il fiocco rosso.

Lei era Sonia, e quella domenica era il compleanno di Artemio. Sonia era lì per fargli una sorpresa, ma non riusciva ad attraversare la strada, era troppo emozionata, lo guardava e sorrideva, ed al tempo stesso lacrime calde le attraversavano il viso.
Ad un tratto prese coraggio e  “Artemio…. ciao…”
“Hei Sonia, ma tu? Che ci fai qui? Fa freddo!”
“Buon compleanno Artemio, ecco che ci faccio qui, buon compleanno uomo più bello del mondo””
“Mah….”

Le parole questa volta non riuscirono ad accompagnare i pensieri di Artemio, questa volta non fece altro che avvicinarsi a Sonia, questa volta non disse altro che “grazie amore mio” e la baciò sul collo, proprio lì dove poi la pelle diventava d’oca, e le regalò le 68 rose rosse che non riusciva a vendere a nessuno, leggermente appassite invero, ma ancora comunque bellissime. 

La cicoria…., chissà come sarebbero andate le cose se la cameriera russa non avesse dimenticato il contorno alla cicoria, probabilmente non sarebbe successo nulla, e tutti avrebbero fatto in tempo a salvarsi, e quello sì che sarebbe stato un bel lieto fine…. 
Vabbè chiudiamola qui, non avremo mai la controprova, chiudiamola qui non prima però di aver detto anche noi l’ultima cosa: “Buon compleanno Artemio, buon compleanno come così buono non ti capiterà mai più, e alla Sonia sposatela, e se non la vuoi sposare amala e basta, che state proprio bene insieme! E “proprio bene insieme” è raro, raro vero, quindi approfittane.





L’Indifferenza

Qualcosa di simile gli era già successo, o almeno all’inizio ne era convinto, e decise quindi di reagire allo stesso modo, avrebbe riempito lo spazio e il tempo di futili orpelli, con tutto il rispetto per gli orpelli sia chiaro.

Ma niente, stavolta proprio non funzionava. Non riusciva a staccare la testa nemmeno per un attimo (la testa🤔). 

Provò con Gloria, alta, sinuosa, moderatamente simpatica, quell’atteggiamento zen tra il distaccato ed il “ho vissuto troppo intensamente ora devo riflettere”, carnagione chiara e occhiale da sole scuro. Nulla, dopo il secondo aperitivo sciorinò il più classico dei “dai, sono stato bene, ti chiamo io, ok?”. Sono passate sei settimane, Gloria nel frattempo si è sposta con Giorgio, conosciuto due giorni dopo l’ultima uscita, lui ancora deve chiamarla. Ad un amico di lungo corso ha dichiarato di non averlo fatto per via di un problema di connessione alla rete TreWind, l’amico ha sollevato dubbi apparentemente fondati.

Poi fu la volta di Alessandra, capello corto, culo rotondo, accento leggermente sbavato verso sud, sorrideva sempre, la invitò convinto, “questa volta ci riesco” pensò, a metà della cena finse una colica renale, “scusami ma dobbiamo rientrare, non mi sento niente bene, perdonami, ti richiamo presto”. Si accorse tre settimane dopo di aver perso il numero, lei nel frattempo lo aveva bloccato su ogni possibile sistema di messaggistica social, credo fosse risentita per via di un diverso concetto di “presto”.

Con Gioia fu diverso, ci mise tutto l’impegno necessario, almeno in partenza,  prenotò, si profumò, fece il bidet, aprì l’auto per farla salire, si finse interessato alle teorie complottiste e ai fenomeni delle scie chimiche, ripensò a quello che gli aveva detto il Capitano due sere prima (“non fare il busone” - nda), poi si accorse di non ascoltarla mentre parlava, quando lei ad un tratto spazientita lo apostrofò: “allora, mi rispondi?”. Lui non aveva idea né di cosa gli avesse chiesto né perché gli stesse facendo così tante domande. Fini che non fece nemmeno in tempo a “ti chiamo io”, che lei aveva già sbattuto lo sportello, il portone d’ingresso, ed una volta dentro casa ed aperta la finestra della sala da pranzo rivolta verso la strada urlò: “Gioia, mi chiamo Gioia brutto stronzo, non Agata”. 

Poi si aggiungano le innumerevoli prese di distanza (le chiamo così ché sfanculamenti fa troppo trash), di tutte quelle con un QI superiore alla media che capita la situazione fuggivano prima ancora di iniziare. Una di queste, si narra, abbandonò l’aperitivo per quella che doveva essere una capatina in bagno, non fece più ritorno, fu vista passeggiare mano nella mano con il primo che passava di lì, fuori dal bagno, fuori dal locale, in un’altra città. Alle amiche più care disse: “va bene tutto, ma così proprio no”. 

Effettivamente il dubbio che non fosse proprio come le altre volte iniziò ad insinuarsi in lui in maniera sempre più prepotente.

Ripercorse mentalmente la strategia che adottò in quei dei quaranta, ripensò a Dorotea, che dalle due alle tre di notte dei giorni pari lo accoglieva con grande piacere; si ricordò di Claudia che odiava i posti troppo rumorosi e voleva sempre stare a casa; poi Titti, romantica e paziente, probabilmente pure troppo; e ripensò perfino a Giuseppina, guasta come lui, alla ricerca di distrazioni come lui, persa come lui tanto che nessuno dei due ricorda esattamente - a distanza di dieci anni - chi doveva chiamare per ultimo.

Non trovò la risposta, la risposta  al dubbio che sta al centro di tutto il racconto intendo, quel “ripercorso” gli lasciò anzi un abbondante amaro in bocca, si sentì un po’ patetico, quasi ridicolo, si guardò perfino intorno per il timore che qualcuno si fosse accorto del suo disagio.

Sapeva da sempre che ciascuno di noi è spesso il “piuttosto che niente” di qualcun altro, lo era stato, lo erano state per lui, lo era ristato, ohhh se lo era ristato, ma non era nemmeno quello a creare la difficoltà, era piuttosto il senso di “vuoto” mai provato che quella situazione gli provocava, una roba tipo il riso con la scatola che si rompe nel carrello della spesa un lunedì pomeriggio alle Cicogne.

“Vuoto” figlio del più potente  tra i sentimenti, l’imperatore dei sentimenti, il Papa, il generale, il Sommo, il super comandante, insomma quello: l’indifferenza.

L’indifferenza ha due facce, esiste quella finta-ostentata-artefatta-strategica, tipo quella di Fanny Chenal nei confronti di Max Skinner fino ad inizio del secondo tempo, e l’indifferenza punto.

L’indifferenza punto è ciò che di più vero e sincero una persona possa provare, semplicemente la si vive (o la sí subisce dipende dal lato in cui ci si trova), ci si dimentica di ciò che non è mai davvero stato, si cancellano le finzioni costruite-artefatte, ci si libera delle scorie, degli incidenti di percorso, dei traghettamenti e dei traghetti. L’indifferenza punto è endemica, salvifica, inevitabile. L’indifferente punto vince sempre e vince soprattutto le gare che manco sa di competere. L’indifferente punto non vede l’ora di diventarlo.

È questo “il davvero diverso” rispetto alle altre volte, il vuoto dell’indifferenza punto, l’indifferenza che può “provare” solo chi ad un tratto, tra sera e mattino, senza volontà sia chiaro, si accorge che nulla di quanto credeva (o probabilmente immaginava solo di credere) è mai esistito, e può “subire” solo chi invece ha davvero troppa fantasia semplicemente “per essere” reale nella vita di un’altra.




Maledetta fantasia

Diventare grandi troppo in fretta è un problema.

Non si dovrebbero mai anticipare i tempi, lo sconsiglio vivamente, la vita è fatta di tappe che vanno attraversate nel giusto ordine, con il giusto equilibrio, con la giusta calma.
Invece a volte accade che il destino, le robe, le costrizioni, l’impazienza, piuttosto che un’irrefrenabile convinzione di autosufficiente onnipotenza, condita da uno spasmodico senso del dovere, portino a stravolgere la scaletta.

Ho visto bambini travestirsi da adulti, adolescenti atteggiarsi a vecchi consumati ed unti fino a perdere quello che doveva essere il momento più bello, ho visto la voglia di vivere soffocata sotto strati di non si può, ho visto il lato deteriore dei sedici, gli impossibili diciotto, ho visto perdersi i ventiquattro, poi i trenta, così come tutto il resto, finché tutti questi adolescenti mal cresciuti, ma proprio tutti… si sono trasformati in cinquantenni noiosi ed infantili.
Mezzo secolo di niente.
Pipponi e cotillon.

E quando si arriva lì, e dico questo da attento osservatore, talmente attento da sembrare protagonista, solo una cosa resta in cui rifugiarsi, sollievo e maleficio al tempo stesso: la fantasia.

Quella fantasia che in fondo ha consentito di raggiungere il futuro, scavalcando ostacoli e cumuli di nefandezze, quella fantasia che faceva immaginare ciò che mai sarebbe successo, ma ci riusciva talmente bene che sembrava tutto vero.

Quella fantasia che trasformava il dopo in domani, magari dopo domani, o anche dopo dopo domani, e lo faceva con tanta naturalezza da far sembrare tutto perfino plausibile.

Quella fantasia che quando il domani arriva, perché prima o poi arriva, si chiama scorrere, ti fa vedere quello che non c’è, costruisce convinzioni e sentimenti monodirezionali, fatue illusioni, dolci autoinganni, vani ed eterei tentativi di riprendersi quel tempo che non è mai stato e mai sarà.

La fantasia colora di rosso il grigio, accende i sorrisi e inganna la realtà, sfiorandola, circuendola, lambendola, accarezzandola, trasformandola in fantarealtà.
La fantasia fa sembrare i baci passione e non solo quantità, esperimento, traghettamento, zattera.
La fantasia costruisce mostri e angeli, tutto e niente, ti accompagna durante il giorno, durante la notte, durante l’estate. 
La fantasia acceca, rincitrullisce, ingigantisce, scaraventa negli abissi, e questo soprattutto quando lotta (irrimediabilmente soccombendo) con la realtà.

Ho visto giovani mai stati finire così, massacrati da eccessi di fantascienza, travolti dal verosimile a pois, ingannati da loro stessi.

Diventare grandi troppi in fretta è un problema, non si vive il proprio tempo e ci si illude di poterne costruire uno fantastico che consenta di recuperare, non succederà, tranquilli, perché ciò che è perso è perso, e pertanto non ci si dovrebbe affannare, semplicemente si dovrebbe aspettare lo scorrere inesorabile che tutto rimetterà in ordine, sperticandosi fino alla fine - questo sì - affinché lo stesso salto, la stessa sorte, la stessa illusione, non tocchi nessuno dei piccoli germogli che dipendono da noi, perché in quel caso sarebbe davvero delittuoso.



Il portalettere, Giulia, il lago di Como, le cose da non dire

Dormiva poco ultimamente, probabilmente l’età stava iniziando a fare effetto, i ritmi circadiani erano impazziti, o perlomeno leggermente alterati, e pertanto così suscettibili come sono si erano messi a far casino, notte-giorno non proprio ben definiti, sogni che iniziavano in fase Rem e sconfinavano pure nella NRem, con il risultato che “le ore di non riposo” battevano le “ore di riposo” tre a due, spesso anche quattro a uno, così che la battaglia veniva persa quasi ogni notte, tanto da portarlo - a fine campionato - abbondantemente fuori dalla zona Champions.

In questo eccesso di veglia il nostro Luì si era ricostruito il suo precario equilibrio, aveva allungato i tempi della cena, anticipato la colazione, era riuscito pure a minimizzare i momenti “morti” rispolverando logore abitudini tanto odiose quanto rassicuranti, insomma aveva ridotto al minimo i momenti di confronto con se stesso, troppo pesanti anche per uno come lui che spacciava resilienza (che parola di merda!) fin da bambino.

Quel giorno la incontrò per puro caso, la vide uscire dal portone numero 17, non riuscì ad evitarla nonostante lo zigo-zago tra le auto parcheggiate sul corso..

“Hei ciao, che ci fai da queste parti?”
“Mah nulla, passeggiavo”

Era bella, molto bella, come sempre, sudata, i capelli raccolti, le scarpe rosse, la sigaretta, sorrideva.

“Come stai?”
“C’è il sole, quindi bene direi”
“Diresti?”
“Direi… sì”
“Tua figlia?”
“Lei bene senza direi, è diventata grande”
“Immagino, ma solo grande? Nient’altro?”
“Beh tanto altro in realtà, ma grande è la prima cosa che salta agli occhi incontrandola”

Si guardarono per qualche istante senza aggiungere altro, le loro espressioni custodivano sentimenti e stati d’animo contrapposti. Lui era spento, lei radiosa, lui confuso, lei sicura, lui intossicato, lei serena, lui era cambiato (e non in meglio), lei sempre la stessa.

L’omino che portava le lettere si fermò poco distante da loro, era nuovo della zona, cercava l’ufficio dell’avvocato Dario Buonfigliolo, doveva consegnare una raccomandata. 
Li guardò distrattamente, quel casco bianco con la striscia gialla gli stava una taglia più grande, non dava professionalità alla figura.

“Ok allora… allora ciao, io vado..”
“Sì, si è fatta una certa… vado anch’io…”
“Mah… volevo dirti”
“Nulla, non volevi dirmi nulla”
“Ah ok. Sì effettivamente non volevo dirti nulla”
“Ciao”
“Ciao”

“Un raccomandata 1 per l’Avvocato”
Il tono del portalettere era stentoreo, a dispetto del casco e dell’apparente insipienza.
“Salga al primo piano, interno 1, sono Giulia”
“Giulia… bel nome”, pensò.

Quando c’è qualcosa da dire che non vuol essere ascoltato è meglio tacere, perché insistere dilungandosi in spiegazioni non richieste? Nel bene o nel male non importa, repetita non iuvant quasi mai.
“Volevo dire…” - “Nulla… so già tutto, non serve andare oltre”.
A volte ci si perde nello spiegare ad altri quello che invece vogliamo solo ribadire a noi stessi, per il piacere di auto-ascoltarci così da fingere di essere ancora qualcosa, per auto-assolversi, per rallentare il palese, si indugia in inutili dettagli, si sproloquia apparecchiando evidenti ovvietà, e chi ascolta o si frantuma i coglioni o semplicemente non sa rispondere.

Luì a questo era arrivato, aveva detto anche più di tutto quello che c’era da dire, aveva fatto anche più di tutto quello che c’era da fare, ora non aveva voglia di sentirsi raccontare altro, da nessuno, né da lei, né tantomeno da quei pochi pochi che di tanto in tanto gli stavano vicino e che spacciavano consigli a cazzo.
Non per una presunta e spocchiosa superiorità, non per la voglia di fuggire la realtà, ma semplicemente perché già sapeva.

“Guardi Giulia mi metta una firmetta qui, ecco così… e una anche qui!”
“A posto?”
“Mah veramente vorrei chiederle ancora una cosa?”
“Dica?”
“Ma mi lasci il tuo numero?”
“Ma lei è sempre così screanzato e diretto?”
“No, ma per te ho fatto un’eccezione”
“…”
“Chiamami in ufficio, forse ti rispondo”
Il portalettere è il mestiere del futuro, sempre più raro, sempre più inutile, è l’unico che riesce ad entrare nel cuore delle segretarie degli avvocati alle 10.30 del mattino.

Si allontanarono così, come se il tempo passato insieme fosse stato il più inutile di quello fino ad allora trascorso, un incidente spazio/temporale lo avrebbe definito Albert, strascichi di disagio per lei, residui di mai visto una roba così per lui. 
Punti di vista opposti per la stessa cosa, punti di arrivo convergenti ma “per e con” motivazioni antitetiche.
Servirebbe un poliziotto a fare ordine in tutto sto caos.

Luì di lì a poco sarebbe partito per Como, voleva capire che cosa gli stava succedendo, un’amica gli aveva consigliato di passare là un po’ di giorni.
 “…in quel posticino vista lago, puoi fare il mio nome, non sanno chi sono ma per evitare figuracce fingeranno di conoscermi, scegli la camera numero 9, è accogliente, al limite dell’avvolgente. Porta le scarpe da ginnastica, il lungolago merita, soprattutto tra le 6.45 e le 7.36, poi caffè all’Hemingway, il caffè fa cagare ma sono certo che a te la location piacerà da impazzire. La sera non stare a perdere tempo, dormi se non trovi nulla di meglio da fare”. 
Così gli aveva detto, a lei non difettava certo la capacità di sintesi.





Alluvione

E poi c’erano vite accatastate sulla via, cumuli di ricordi, tonnellate di storie passate, pezzi di futuro incastrati a residui di presente, tutto terribilmente confuso, sporco, fetido, ferito, umido, a tratti nauseabondo.

L’acqua aveva sommerso ogni cosa, anche i sogni, aveva infradiciato le aspettative di Giulia e Antonio, sessant’anni in due, da poco nella nuova casa, dipinta di fresco, con quel lettone morbido stracolmo di cuscini e il tostapane azzurro american style, tutto svampato ed inghiottito dal gorgoglìio.

E pure Giorgio, triste già prima della piena, immerso da sempre nella sua pesante solitudine…. oggi manco più quella aveva salvato, sfollato tra gli sfollati, ancora solo ma impilato tra decine di sventurati come lui. 

E Angela, studentessa ed artista, amante della musica, dell’incenso e dei colori, che nonostante la tragedia è riuscita a trovare il mezzo pieno: “toni di grigio su fuseaux lilla, mi dona parecchio”, dichiarò ai cronisti.

E Carolina, solo lacrime, infradito e pigiama, tutto il resto da ricostruire-rifare-ripensare-riprogettare, aspettava Dino, era fuori per lavoro, ma lei aveva bisogno di lui e Dino arrivò. 
Non tutto era perduto.

E poi camion, autobotti, sirene, elicotteri, auto, pale, sacchetti di sabbia, mancavano solo le trincee, perché tutto sembrava guerra, tutto sembrava lotta.

Un paio d’anni fa andava di moda il più classico dei “ne usciremo migliori”, oggi qualcuno si chiede “ne usciremo?!”, qualcun altro beve vino e tace.

Le automobili sono più affrante dei loro proprietari, qualcuna di loro è morta affogata, una Ford Focus bianco perla sta agonizzando in officina da tre giorni, non ce la farà.

Le pompe sono diventate introvabili, le idropulitrici le paghi a grammo e ti consigliano di conservarle in cassaforte dopo l’uso, i baci con la lingua sono scesi del 36% in quantità, del 62% in qualità, e già prima non è che il dato fosse esaltante.

Ma una cosa l’acqua non è riuscita a cancellarla e non ci riuscirà, si tratta dell’espressione di chi ha già tolto il fango, i quasi puliti, i reduci del “ce l’abbiamo fatta”, i primi ad aver scavato, asciugato, aspirato, spalato, caricato, quell’espressione da veterani un po’ afflitti, un po’ euforici, un po’ incoscienti ed un po’ sereni, si sereni, magari per poco, forse per molto poco, ma comunque sereni. E la serenità, anche se solo per un istante, conforta.

“La vuoi una Ceres, guarda che aiuta”
“Meglio di no, non credo sia una buona idea”
“Fidati, meglio del Brufen”
Girava tutto, girava tutto “molto vorticosamente”, era già capitato e ricapitò ma non riusciva ad abituarcisi fino in fondo, forse la stanchezza, forse la rabbia, forse l’impotenza figlia della mancata soluzione, forse l’insonnia, forse 105 la massima e 48 la minima, forse il fango, ma la Ceres restava comunque un azzardo mica da ridere in quella condizione.
Optò per un te caldo non appena raggiunto il proprio inutile e vuoto angolo di conforto.

Il rumore dell’auto-spurgo che ricaccia quella melma melmosa nel greto ancora scosso del fiume ha un non so che di consolatorio, “fottiti merdaccia” è il sottotilo, fuori da casa mia la chiusura.











L’omino che osava sperare bevendo caffè

Uscì di corsa, un espresso al volo e subito fuori, l’aforisma legnoso accalamitato sulla parete dietro la macchina del caffè (una Regina a tre gruppi) lo aveva scosso, doveva osare, doveva osare per continuare a sperare, quindi via ad osare come non ci fosse un domani, per sperare già da dopo domani.

Ma nella foga del momento non aveva considerato un due tre robe, un paio di dettagli, tipo osare cosa? Per sperare chi? O come? O quando?

“Come hai osato?!” fu il primo pensiero che lo assalì fatti trentaquattro passi, “come hai osato osare?!” Il secondo.

Gli aforismi sono belli, li adatti ad ogni situazione che stai vivendo in ogni momento in cui la vivi, arrivi perfino a credere che siano stati scritti per te, quando in realtà chissà cosa davvero pensava l’autore, e soprattutto chissà se pensava davvero. 

Quale speranza nutriva colui che ha ispirato la barista poeta che appiccia le lettere? Una nuova vita? Un nuovo amore? Un milione di euro? Un gelato al cioccolato?

Qual era il suo azzardo? Cosa avrà osato per sentirsi così fiducioso? Sprezzante del pericolo ha salvato il figlio del suo capo da un palazzo in fiamme? Ha comprato ventitremilaseicento Gratta e Vinci? Ha dichiarato “a te ti amo davvero”? Ha detto “il tuo pistacchio mi fa schifo ce l’hai il cioccolato”? O semplicemente è stato un incosciente?

La speranza è una molla, spesso fine a se stessa, una molla che ci aiuta ad andare avanti, alla continua ricerca dell’obiettivo, come l’asino che insegue la carota appesa sopra la propria testa per far funzionare la macina.

Ritornando al nostro amico però, ché poi divagare distrae, quel giorno osò solo  “di dire la verità”, il suo azzardo fu la sincerità, cuore e  fegato in mano, che come immagine mi rendo conto non è proprio il massimo, ma così fece. Decise di dire tutto quello che poteva stare in un numero di righe sufficienti a far capire senza annoiare, usò parole forti, non per impressionare, non ne aveva alcun bisogno, ma solo per sentirsi egoista, sì egoista, non pensò alle conseguenze ma si limitò a crogiolarsi per un attimo nel piacere che viene dal liberare pensieri tanto forti. Colorò e profumò il suo desiderio, lo fece a rate, per far capire quanto fosse prezioso (non poteva permetterselo tutto in un colpo), dolce, duro, raro, intenso, speciale, lontano, passato… bello…. ohhh sì…. semplicemente bello, perché bello con il giusto accento racconta più di ogni altra parola. Tutto questo portò speranza? No, portò un po’ di pace temporanea, quella pace che assale quando ci si accorge di aver detto quello che c’era da dire, altrimenti sarebbe solo un “è tutto uguale”,  quando in realtà di uguale a quella roba lì non c’è mai stato davvero nulla.

“Scusi oggi prendo un cappuccino, mi siedo fuori, di fianco alle rose. Grazie…”




Vermouth vista lago….


Il tempo avrebbe sistemato le cose, così diceva a se stesso cercando di convincersene, “il tempo sistema tutto, è sempre stato così e sempre lo sarà, ne ho le prove, e anche là dove non ha sistemato, comunque ha sopito”.

Fuori faceva caldo, qualche nuvola poco efficace velava il cielo lasciando filtrare nemmeno troppo timidamente luccicosi sprazzi di sole, una brezzolina leggera spolverava l’atmosfera in direzione ovest/sud-est senza per questo cambiare la situazione. Tutto aveva  l’aria di essere molto romantico.

Lo si capiva dall’incedere incerto tra le viuzze che il suo obiettivo era lasciarsi attraversare dalle ore, dai giorni, dalle settimane, voleva perdere tempo, aveva fretta di farlo, così da uscire il prima possibile da quello stallo figlio del troppo da cui si era lasciato inopportunamente abbindolare qualche mese prima.

Si fermò vista lago, un vermouth rosso con aromi, scorza d’arancio e rosmarino, un abbinamento azzardato in effetti, come quella fuga sul Garda d’altronde, passando prima a salutare quei due pazzi immaginari del Romeo e della Giulietta, era da tanto che non andava, era da tanto che aveva promesso di ritornare.

Il cigolio all’anteriore sinistra lo aveva perseguitato per tutto il viaggio, nemmeno aumentare il volume dello stereo migliorava le cose, il destino aveva proprio voglia di rompere le balle, anche di sabato, anche a fine aprile, anche con Giove nel segno, anche se lui era lì per regalarsi due ore di auto-auguri, niente, nessun rispetto… e checcazzo.

Il tempo sistema tutto, chissà se sistemerà almeno questo odioso rumore molesto… ché sul resto non sta facendo un gran lavoro.

Il lago è malinconia in effetti, glielo aveva detto la Giulia, che aveva pure aggiunto: “non andare!”. Ma in fondo la malinconia altro non è che un panicello caldo, una roba da regalare a tutti quegli affamati di un futuro sciocco che sarà sempre diverso da come l’avevano immaginato prima di allora. La malinconia è metadone.

Il vermouth riscalda il cuore, è una minchiata ma a questo punto della storia pareva bello scriverlo, l’autogrill sulla strada del ritorno dopo le 22.30 serviva solo Reginelle tiepide, i vacanzieri del ponte a venire avevano spazzolato il mondo, non restava che rifocillarsi a caffè e cioccolata Milka.

Prima di riaccendere il motore per un istante indugiò con lo sguardo fin sotto le tettoie frangisole che di notte fanno un po’ inutile, una coppia eccentrica stava salendo in macchina, lui si fermò di colpo a due passi dallo sportello, prese lei e la portó a sè: “Giulietta?” - “Si Romeo?” - “Baciami”.

Ripartirono tutti di li a poco, ognuno per la sua strada, ognuno con i suoi pensieri, Giulietta avvinghiata e con il capo appoggiato sulla spalla destra di Romeo (che probabilmente ha un’auto con il cambio automatico), ed il nostro a discutere con Lou Reed che si ostinava a sostenere che quello era proprio un “Perfect Day”.

Beh diciamo che è una questione di punti di vista…

Le famiglie vanno da McDonald a mangiare il Crispy McBacon (titolo finto per fare audience)

Poi sono cinquanta, non te ne sei nemmeno accorto e ci sei arrivato, banale eh? Banale da dire e banale pure da scrivere, un vero pippone scontato e per niente poetico né tantomeno innovativo, concetto trito e ritrito, ma è così che funziona. 

E dire che te lo raccontavano quelli che hanno già provato questa "fantastica" esperienza prima di te, e tu stavi lì ad ascoltarli con sufficienza, come se fosse stata la vita di un altro, ed effettivamente sì…. allora era la vita di un altro, e ok in quel caso ci stava quella velata noncuranza, ci stavano quei tranci di disinteressato "chi cazzo se ne frega", ora invece si parla della tua.

Lo vedi già dalla punteggiatura che qualcosa è cambiato, stai aumentando a dismisura il numero delle virgole e dei punti, periodi brevi e lenti, un po' il contrario di quella fretta di gettare pensieri alla rinfusa che ti ha caratterizzato fino ad oggi, ma è così che funziona, l'ho già detto, provi a rallentare la mente sperando di rallentare pure il tempo, ma niente, non si frena proprio niente niente.

E con i cinquanta arrivano i primi bilanci, in realtà un due tre conti sarebbe stato opportuno averli fatti magari prima, tipo una situazione contabile intermedia intorno ai ventotto, sarebbe stato bene controllare lo stato d'avanzamento del proprio personalissimo business-plan così da correggere la rotta in tempo.

Ma a volte capita, soprattutto ad una sottospecie dei cinquantenni che qui definiremo adolescenti ritardati, di non averlo proprio fatto un business plan. Gli adolescenti ritardati vanno avanti a spanella, fanno finta di programmare anche il più piccolo particolare ma in realtà affondano ogni giorno nel pressapoco fino al collo, melmosa melassa da cui spesso faticano a risalire.

Questi curiosi (e per fortuna rari) soggetti, sono partiti percorrendo di corsa sborantamila piani diversi, dei nevrotici del "faccio tutto io" che si sono specializzati in incroci di interessi-doveri-passioni-sogni-incubi-malette varie-stati di fatto, ad ogni nuovo passo comprando tempo, anzi usando quello che avevano senza rendersi conto di consumarne ogni volta un pezzetto. Degli incoscienti poco normo dotati con lo sguardo rivolto al passato alla costante ricerca di un futuro che uauuu!

Questi curiosi (e per fortuna rari) soggetti in fondo sono sempre stati un po' coglioni, buoni a tratti, cinici a correnti alterne, con un QI sovrastimato dai più, divertenti a modo loro, affascinanti per i primi quattrocentotrentotto giorni, ma un po' coglioni.

Ne conosco uno che risponde proprio proprio a questa bislacca ed approssimativa descrizione, è un tipo un po' così, non saprei raccontarlo nel dettaglio, non è semplicissimo da capire, credo che faticherebbe pure lui a dipingersi per due volte nello stesso modo tanto è confuso.

Ma una caratteristica tutta sua, che sarebbe interessante analizzare approfonditamente per capire se è tipizzabile per categoria, però ce l'ha: non azzecca un giudizio sulle persone manco dopo un corso serale intensivo di "capisci l'altro/a - il linguaggio non verbale e i dati di fatto come strumenti di analisi dell'antropologia moderna" tenuto da Julio Velasco in persona.

Sembra una roba banale ma guardate che non è così, il tipo in questione, e i tipi come lui in generale (passiamo al plurale che fa più figo e tipizza) sono vittime di loro stessi e delle proprie fantasiose idee (scientificamente definibili come idee del cazzo, spesso con un culo della madonna e gli occhi marroni, ma non mi sembra il caso di fare troppo gli eruditi che poi la gente si annoia) in cui proiettano l'altra (e qui passiamo al femminile che comunque sono etero e non mi piace fare troppo il generalista).

Guardano, osservano, ascoltano, interpretano silenzi, scambiano per verità frasi interscambiabili dette durante amplessi incredibilmente loquaci, millantano capacità divinatorie, si convincono di vedere quello che nessuno vede, si convincono di poter "tirare fuori" quello che nessuno vede, e non pensano mai nemmeno per un istante che "se nessuno vede" magari non c'è. O no?? Oppure c’è “ma l'ha visto pure un altro e c'ha pensato prima lui" che è esattamente la stessa cosa?!

E su queste basi farlocche ci costruiscono il mondo, il proprio mondo, il proprio fantastico mondo avulso dal contesto, dalla realtà, un po' come andare a cena in un ristorante vegano convinti che in fondo in fondo il tofu sia il fratello maggiore della chianina, ma non lo chiamano così perché la vacca fa quel tanto di volgare che magari spaventa le famiglie che fuggirebbero tutte in massa da McDonald che lì si CrispyMcBacon a bombazza, che sempre vacca è ma si sa che l'inglese rende tutto molto più friendly.

E di queste improbabili elucubrazioni si innamorano davvero, ma davvero davvero, tipo "cavoli come sono innamorato", e non pensate ad un amore finto, di facciata, una roba che "lo dicono tutti e lo dico anch'io che non costa niente e rende tanto e se stiamo trombando non conta", no, no, una roba seria con i controcazzi, di quelle robe che catalizzano il pensiero costantemente che nemmeno Battisti in "e penso a te" avrebbe immaginato tanto. 

E non pensate nemmeno che una volta resisi conto della verità abbandonino la propria idea, è no, troppo facile, i cinquantenni adolescenti ritardati perseverano nell'errore, iniziano a trovare giustificazioni, ad elaborare strategia alternative, a riprogrammare, a bilanciare, a straminchiare, a travolgere ignare passanti (che poi spesso ignare non lo sono proprio per niente), al solo scopo di inseguire la propria emozionante emozione.

Ecco, altra caratteristica dei cinquantenni adolescenti ritardati è di essere vittime oltre che di loro stessi, pure delle loro emozioni. Non ne provano quasi mai, ma quelle due volte che capita a distanza anche di ventidue/ventitre anni l'una dall'altra, fanno un casino che la metà avanza e avanza pure per parecchio. 

“Poi sono cinquanta”… sì, abbiamo iniziato così giusto? E allora credo sia giusto finire ripartendo proprio da qui, da poi sono cinquanta, così da dare un senso a questo racconto insensato, e cosa si fa per ripartire da qui? Si fanno gli auguri. 

E perciò auguri cari cinquantenni o presunti tali, che state iniziando a puzzare un po' di stantio anche se vi inondate di Prada Parfum 458J, viaggiate in SUV ma sognate una Fiat Tipo 1600 JTD, vi gonfiate i muscoli con la palestra e le labbra col botulino, sognate ad occhi aperti durante il giorno perché la notte la prostata ingrossata vi tiene svegli causando frequenti minzioni, esaltate il brizzolato con l'abbronzatura, vi innamorate delle stronze, comprate i jeans stretti a vita bassa, controllate i trigliceridi, guadagnate paccate di soldi o vi ammazzate di reddito di cittadinanza che in fondo è la stessa cosa quanto a riprovazione sociale. Auguri cari cinquantenni che non vi arrendete mai perché si arrendono solo le pippe, auguri a voi che uscite a cena e tirate tardi più che a vent'anni giocando a calcino e bevendo Martini Vermut, un po' divertenti e un po' patetici, ma con ancora un sacco di roba di dire e da dare a chi è in grado di cogliere le differenze. Auguri cari cinquantenni che guardate al domani come se non ci fosse un domani e che vi crogiolate nel passato per cambiare l'oggi, che nemmeno Emmett Lathrop Brown Ph. D saprebbe fare meglio.

E auguri soprattutto a voi cari cinquantenni adolescenti ritardati, categoria bistrattata e sottovalutata come poche (ammesso che esista davvero questa categoria), il cui valore o disvalore emerge sempre a scoppio ritardato, spesso quando è troppo tardi e non serve più a nulla.



Un sabato sera al banco

Poi ti accorgi una sera a cena di vivere un eccesso di libertà, un eccesso di tempo, un eccesso di spazio, di pensieri, di idee, di silenzi, di kilometri, un eccesso di chi non vuoi, di chissenefrega, di libri, un eccesso di quello che ti pare, di ricordi, di passato remoto-prossimo-imperfetto, di abitudini, di noia.

Eccessivamente eccessivo, con quel retrogusto di meglio niente che piuttosto, quel piuttosto a cui comunque a volte ti abbandoni per evitare di impazzire davvero, il tutto condito da spezie orientali e carenza di ciò che davvero conta, o contava, o contò, o conterebbe.


Il tonno pinne rosse, le alici marinate, il sangiovese, il pesce spada alla siciliana, il chimichurri che non hai idea di cosa diavolo sia ma sai solo che è buono, tra foto scattate a caso e per caso, storie scritte di getto e rilette e ripensate il giorno dopo.


È così che si cena il sabato sera… non si dovrebbe ma si fa, e i tuoi vicini di banco, occasionali, sconosciuti, belli, lei bionda, lui brizzolato, tifosi della Fortitudo, sbirciano il titolo del tuo “compagno” d’avventure, “bello, bravo, lo abbiamo letto entrambi, scusa se siamo stati invadenti” e tu pensi “nessuna invadenza, anzi ho sentito calore, e si bello, molto,  ma purtroppo non l’ho scritto io”, poi li guardi guardarsi, sono affiatati, complici, sorridenti in sincrono, hai ascoltato i loro discorsi, hai osservato il loro brindare luccicante, ti sei lasciato affascinare e pure un po’ cullare dal loro ascoltarsi a vicenda (che Dio solo sa quanto sia raro), e sei felice per loro perché sono “veri” e il vero merita la felicità.


Le coincidenze a volte sorprendono, stanno lì a ricordarti le occasioni perse, a ricordarti che non a tutto c’è una spiegazione, che il chimichurri esiste, che il tempo non è infinito, che ci si innamora degli sguardi e della voce, che il fumo fa male, che non bisogna fare pipì in autogrill, che la primavera è la stagione degli inizi, o almeno dovrebbe, e che “la vita va vissuta e non solo pensata”… o se non altro non troppo…. diciamo solo un po’.