Amor che nulla amato

C’era una volta, tanto tempo fa, un uomo che cercava l’amore, non il sesso, non la coppia, non una donna, non una famiglia-dei figli-una casa, cercava proprio l’amore.

Cercava quello che Dante un giorno definì “l’amore che non è altro che unimento spirituale de l’anima e de la cosa amata..” , al di là del fatto che sparare all’inizio (o alla fine) di un racconto una citazione dotta fingendo di conoscere a menadito anche il resto del pensiero del pensatore fa sempre un certo effetto sul lettore, a volte anche solo effetto coglione, quello che quell’uomo cercava era proprio questo: l’amplesso tra un’anima e la cosa amata.

Lo cercava da anni, e lo cercava ancora oggi che giovanissimo non lo era più da un po’, lo cercava in ogni dove e in ogni quando, lo cercava la sera, la mattina, e qualche volta pure il pomeriggio; lo cercava al lavoro, durante il tempo libero, in bagno appena sveglio mentre lavandosi i denti si osservava riflesso allo specchio con un’aria di compatimento per quegli occhi gonfi ed ogni giorno un po’ più spenti.

Lo cercava in auto mentre cambiava stazioni alla radio, lo cercava in Autogrill, lo cercava tra le pagine di un quotidiano, poi tra le pagine di un libro, poi tra le pagine della Settimana Enigmistica, poi tra le pagine di una collezione anni ottanta del periodico “Le Ore” (molto corpo e un po’ meno anima), poi tra le pagine di un’agenda del 2003; lo cercava mentre passeggiava la sera dopo cena.. così... due passi per digerire.

Lo cercava a pranzo la domenica, a merenda il mercoledì, a colazione il venerdì.

Insomma, la ricerca era diventata una delle sue ragioni di vita, non l’unica ma certamente una delle più assillanti.

Era curioso di capire come far accoppiare l’anima dell’uno con il corpo dell’altra, o anche viceversa, poiché l’accoppiamento anima/corpo - dice sempre il Dante (o almeno credo lo dica) - gode della proprietà commutativa: cambiando l’ordine delle posizioni il risultato non muta (si insomma, un po’ cambia, ma non molto).

Lo cercava perché ne sentiva la mancanza, un suo amico gli aveva assicurato di averlo trovato, non gli aveva detto esattamente né dove, né come, nè quante, ma c’era riuscito. 

Suo cugino poi gli disse di averlo trovato in Lucia, lui Lucia non l'ha mai vista nemmeno al matrimonio di suo cugino, quel giorno era febbricitante e non si presentò ma suo cugino si sposò ugualmente.

Una sua amica poi gli aveva raccontato di esserci andata molto vicina un giorno che aveva incontrato un tipo e dopo un anno se l’era portato a convivere e avevano fatto tanti bambini e avevano comprato un cane, una cyclette, un body di pizzo col perizoma, un sex toys, una borsa di Luis Vuitton e una 500 Elettrica, acquisto quest’ultimo che le aveva fatto conoscere Giulio (il venditore della concessionaria Fiat di via Fate Bene Fratelli) con cui aveva da tre mesi una storia clandestina alla luce del sole (eco-love-sex).

Lo cercava perché credeva che l’orgasmo intellettuale (quello dell’anima) mixato con l’orgasmo classico (quello del corpo) è cosa rara che merita di essere voluta e pure vissuta.

Lo cercava perché voleva dimostrare a Paolo Fox che Saturno contro a lui gli faceva una pippa.

Lo cercava perché senza amore si sentiva a metà, e considerando che non era neanche Dante, non era un bel sentirsi.

Lo cercava perché nella vita qualcosa bisognerà pur fare oltre che lavorare e lavarsi i piedi.

Lo cercava perché voleva essere libero, libero soprattutto di essere libero di vivere, e credeva che amando davvero ci sarebbe riuscito.

Lo cercava perché in lui c’era la stoffa dell’esploratore.

Lo cercava perché lo voleva.

Lo voleva sì, lo voleva e punto, perché l’amore è parte di ciascuno di noi, e anche se quale parte esattamente non so è normale ricercare la completezza dell’essere, servono tutti i pezzi per essere felici.

Il suo modo di cercare subì una profonda evoluzione con il tempo, iniziò con il costruire storie d’amore a tavolino, le progettava e le realizzava, ne progettò tre o quattro, ne realizzò altrettante, peccato non sia mai stato un granché a disegnare, il risultato fu uno schifo.

Proseguì allora con relazioni d’istinto, brevi-caotiche-brucianti e senza progetto, una successione di insensatezze, sudate-goderecce-lascive, ma non sembrava proprio amore quando la sera rientrava a casa finalmente solo.

Si lanciò anche in storie da manuale, fatte per bene, seguendo le regole scritte da altri, gli architetti del sentimento, quelli bravi che sapevano come fare, il risultato non cambiò, dell’amore nemmeno l’ombra.

Poi si diede alla toccata e fuga, nel senso che toccava in superficie, osservava la reazione, aspettava un sussulto dell’anima (la sua) prima di togliersi i jeans e i calzini, ed in assenza di sussulto fuggiva senza lasciare traccia. Questo è stato il periodo più in bianco della sua strampalata esistenza, e non mi riferisco alla dieta s’intende.

Poi scrisse a Uomini e Donne, ma Maria De Filippi lo scartò perché all’incontro in redazione le chiese se poteva fare cambio con il Maurizio Costanzo Show.

Poi non fece più a nulla, si mise ad aspettare che fosse l’amore a trovare lui -  “ah va che se l’unimento ha da essere l’unimento sarà senza che io cerchi più niente”  - ma non aveva fatto i conti con il Covid, l’unimento era in lock down, non poteva uscire dalla zona rossa, solo asporto, e l’amore… si sa… non si asporta.

 


Le formiche 🐜

Hai presente un formicaio?
Ma un formicaio strano, una roba tipo dove le formiche formicano a dieci centimetri l’una dall’altra? 

So che si fatica a immaginarlo, non s’e mai visto qualcosa di simile, distanziamento insetto sociale, indaffarate come al solito ma lontane come mai, tutte a fare qualcosa ma diffidenti e distaccate.

Contro natura.


Anche le formiche asociali si trovavano a disagio, abituate a cullarsi nella solitudine faticavano pure loro a vedere tutti quei congiunti disgiunti.


Le formiche innamorate erano le più disorientate, le ho viste baciarsi senza lingua, abbracciarsi senza toccarsi, parlarsi senza ascoltarsi.


L’amante della formica regina, un formicone tutto muscoli e sguardo tenebroso era il più triste, non sapeva che fare, non aveva notizie, la regina se ne stava rintanata nel suo rifugio, manco un messaggino via telegram gli ha mandato da tre giorni, “il formico Re sarà con lei?!” sì struggeva il malvissuto.

E non si poteva nemmeno sbronzare poveretto, tutte le rivendite di alcolici gestite dal clan delle cicale erano chiuse, “Chiuso, forse riapriremo forse no”, era il cartello appeso al portone sbarrato.


I bimbo formica giocavano in silenzio, lo sguardo triste mentre disegnavano margherite e chicchi di grano sul loro album Fabriano A4, i compiti li avevano già finiti, nessuno però li aveva corretti.


La formica 🐜 escort era senza clienti, aveva abbassato pure le tariffe, venticinque euro per un têt à têt post romantico, “ambiente ozonizzato” garantiva, ma niente... manco un cliente a schiantare. 

E pensare che voleva solo vendere amore.


Alle cinque e venticinque sempre meno movimento, sembrava fosse scattato il copriformica come ai tempi della grande guerra contro i papatacci invasori.


Il portiere di notte del Grand Formica Hotel, 5 stelle extra lusso, guardava desolato il salone delle feste, due ospiti soltanto, un calabrone senza tetto ma ricco a bestia e una libellula sciantosa con tacco dodici, pelliccia di visone bianco con la martingala e rossetto rosso d’ordinanza.


Tutto era molto surreale, i più vecchi raccontavano che qualcosa di simile era accaduto centina di anni fa, la formicastrage bubbonica, una pestilenza devastante che per le vie di sabbia solo i bagarozzi monatti potevano andare, avevano il pass.


Il presidente del consiglio delle formiche, l’avvocato del popolo degli insetti, spandeva dpcdf a nastro, uno peggio dell’altro, astrusi, ottusi, desolatamente inutili.


Davvero dura la vita nel formicaio, nessuno più sorrideva, nessuno più formicava, tutti a lavarsi zampe e antenne ogni tre per due.


Sul molo, di fianco la ruota panoramica spenta, una formica trap contava una canzone triste mentre un grillo col monopattino elettrico faceva avanti indietro.


E stava per arrivare il Natale, babbo formico non sapeva ancora se avrebbe potuto consegnare i regali, nel dubbio aveva chiesto due mesi di cassa integrazione per i folletti e il reddito di formicanza per le renne.


Tutti aspettavano il formicavacino, i formicologi ci lavoravano da mesi, Astra Formica Zeneca (multiformicanazionale farmaceutica) era pronta, tra metà novembre e fine luglio del 2021 avrebbe sparato le prime dosi, “siamo alla fase tre o quattro tranquilli”.


I negaformiche non ci credevano però, “è un complotto delle cicale per farci morire tutti”.


Il portiere (quello del Grand Formica Hotel) si ruppe le balle di star lì a guardare il salone delle feste con le zampe nelle zampe, decise allora di suonare qualcosa al pianoforte, il calabrone e la libellula sentita la musica si avvicinarono, si guardarono e iniziarono a ballare, tutta la notte ballarono, poi si guardarono ancora, intensamente, libidinosamente, appassionatamente:

“Andiamo?”

“Andiamo!”

Salirono nella suite di lui, lei si sfilò la pelliccia e lasció cadere il tacco dodici ai piedi del letto, iniziarono a fare l’amore mentre fuori il sole stava sorgendo.

Fanculo la pandemia pensarono.

Il portiere sorrise.


Fu solo allora che la formica regina invió un messaggio al suo amante: “ti penso..”.


Ecco fu così che la vita nel formicaio in qualche modo riprese.







Le cabine

E i due ad un tratto fuggirono, si nascosero incoscienti dietro le cabine, avevano voglia di fare l’amore, consumati dalla passione e dal non si può, a proteggerli non c’era nemmeno la nebbia... ma a loro non importava. 

Troppo coinvolti dall’attimo, adrenalina e testosterone, cozze e salsedine, ampi calici da poco svuotati e risa sguaiatamente intense. 

Correvano abbracciati sulla spiaggia all’imbrunire, la sabbia li rallentava.

Erano giovani ma non lo sarebbero stati per sempre, nonostante lui troppe volte si comportasse come fosse convinto del contrario,  “allora bruciamoli questi istanti” si dissero, dimenticando per un dieci minuti la slavina di difficile che li inseguiva lontano da lì.

Il mare fuori stagione è perfetto per gli eterni insoddisfatti, terapeutico direi, lo sciabordio disordinato delle onde è “il sottofondo suo”, le grida stizzite dei gabbiani a scacciare pensieri.

E poi pensieri sempre in sincrono che, non si capisce il perché, finiscono troppo spesso con il prendere strade opposte.

“Da grandi ci perderemo e continueremo a sognarci” pensò lei senza dirlo, aveva jeans bianchi.


Lui la baciò con la lingua, lei sorrise affaticata da tutta quell’attesa, si amarono ancora una volta.


Fu semplicemente bello.










La felicità 😁

“Sei felice?”

“Felice?”


“Sì, felice...”


“Mah... non saprei....”


“Come non saprei? O sì o no!”


“E allora ti rispondo perché”


“Cosa perché?!”


“Perché felice”


“Ma che risposta è perché felice?”


“Niente, è così, perché felice! 

Dovrei? Lo sono? Lo sei? Lo sarò? Lo fui? Lo sarei stata? Avrei dovuto esserlo? Potrei esserlo ancora? Ne sarei stata capace? Felice da sola o felici in due? E in tre? Magari in quattro? E in sei? Potevo essere felice in sei? Se non sai perché inutile interrogarsi oltre”


“Io lo so”


“Perché allora? Dimmi..”


“Perché sì!”


“Eh non vale così”


“Oh si che vale... perché felice è la vera domanda, e pure la vera risposta, l’hai detto tu e hai ragione!”


“Allora rispondimi cazzarola!”


“Si. 

Sono perché felice! 

Lo sono perché lo sono stato, una volta e forse anche due, lo sono perché ho sorriso e se ci ripenso sorrido di nuovo. 

Lo sono perché ha avuto senso e ne è valsa la pena.

Lo sono perché lei sa quello che nemmeno io so.

Lo sono perché sono stato insonne pensando a lei.

Lo sono perché sono stato inappetente per colpa di lei.

Lo sono perché ho goduto di lei, ho goduto con lei, ho goduto per lei.

Lo sono perché noi lo eravamo.

Lo sono perché faceva caldo, e poi freddo, e poi autunno, inverno, primavera e pure estate, prima afa e poi gianetta.

Lo sono perché diversamente sarebbe mancato un pezzo.

Lo sono perché fanculo bilanci e bilancini, dove sono finito e dover andrò, cosa farò e cosa farà, ero giovane e incosciente, era giovane e intensa,  bella e disarmante, vera e non verosimile, emozionata ed emozionante, col naso all’insù e gli occhi profondi, capiva senza bisogno di spiegare, dava senza bisogno di chiedere.

Lo sono perché un attimo a volte è sufficiente.

Lo sono perché sono diventato grande con lei.

Lo sono perché sono rimasto piccolo con lei.

Lo sono perché la felicità arriva, resta un po’ e se ne va, e non perché sia cattiva, matrigna o chissà cos’altro, ma solo perché è così che funziona, le cose succedono e passano, un po’ come fare all’amore, questione di coito... prima o poi s’interrompe.

Vedi che ho capito il perché?!”


“Non ti chiederò mai più nulla!”


“E perché mai?!”


“Perché sì”


“Eh... così non vale!”


“Oh si che vale, sì sì... vale proprio un bel po’...”







Olga

Olga sapeva di libertà, Luì se ne accorse nell'istante stesso in cui la vide entrare negli uffici della sua azienda, alta... irrequieta... felice... sprezzante... dolce... determinata... semplicemente intensa... sì... intensa, credo che intensa sia l'aggettivo che nascosto tra i tanti possa permettersi di raccontare questa giovane donna.
Luì non le disse nulla, semplicemente la osservò, si limitò a questo, quella prima volta lasciò che altri si occupassero di lei e delle sue faccende, ne rimase però estremamente colpito, direi intrappolato se non fosse azzardato, intrappolato in qualcosa che non saprebbe nemmeno compiutamente descrivere ne son certo. 
Fascino? Troppo banale.
Personalità? Troppo riduttivo.
Allure? Troppo francese.
Carattere? Troppo generico.
Bellezza? Troppo scontato.
Gambe? Troppo evidente.
Sguardo? Troppo abusato.
Culo? Troppo volgare per quanto fantastico.
Sensazioni? Eh, sensazioni si avvicina, Olga sapeva trasmettere sensazioni.

Ed ora voi direte: "Sensazioni?! Ma sensazioni de ché?!"
Proviamo a spiegare.
Sensazione è tutto ciò che è capace di lasciare un segno, sensazione è il pensiero che persiste, è il profumo immaginato, è la pelle che vorresti accarezzare, son le parole che vorresti sentire, il viso che continui a vedere tra i tanti, le storie che vorresti farti raccontare.
Sensazione è il "non si può" che vorresti sfidare, oh sì se lo vorresti sfidare, sensazione è la battaglia campale da combattere contro il "non si può"! 
Combattere per vincere? Per perdere? Non importa, non sono importantu il perché, il quando e il come, importa solo che lo vorresti.
   
La seconda prima volta che Luì riuscì a passare un po' di tempo con lei ebbe semplicemente conferma di tutto ciò che ho raccontato poco fa, non ne fu sorpreso, lo aveva messo in conto, ne aveva immaginato financo il sapore e dimostrò il suo teorema: le sensazioni non tradiscono mai, soprattutto quando sono così intense ed improvvise.
E' invece il raziocinio a tradire, sono il troppo pensare, il progettare, il prevedere, l'elucubrare ed il promettere che tradiscono.
E' il verosimile dell'aver vissuto in "una storia qualsiasi purché sia storia" a distruggere stima e ricordi.
E' il voler dare “un volto-un nome-una casa-un colore” ad un sentimento generico per quanto voluto e cercato a tradire.

Le sensazioni invece no, le sensazioni (come le emozioni) non tradiscono, rendono probabilmente insoddisfatti ma non tradiscono, non mentono, non ingannano.
Le sensazioni (come le emozioni) partono dal "chi" e possono arrivare "al come-al dove-al quando" così come possono non arrivarci mai, ma prima di ogni cosa, prima di ogni credere, prima di ogni progettare, prima di ogni pensare, prima di ogni tempo (ieri-oggi-domani) c'è il "chi", solo e semplicemente "chi".

Chi? Lei.
Chi? Lui.
Chi? Loro.
Chi? Niente.
Chi? Nessuno, ma un nessuno d'un bello che lo ricorderai per un sacco di tanto tempo ancora.

Ecco che cosa affollò la testa di Luì negli attimi che seguirono il paio d'ore più corto della storia.

Caffè e sensazioni, alta, incredibilmente spontanea, affascinante più che fascinosa, lo sarebbe stata pure senza tacchi, ubriaca di "non si può" e "pezzi di vita" e "romanzo" buttati lì con una naturalezza devastante, inebriata da una romantica e sfuggente passione per il fare e per l'essere.
Travolgente nella sua semplicità ricercata ed attenta.
Elegantemente pericolosa.
Come pensare che l'uomo dell'impossibile, delle coincidenze, del racconto convulso, l'uomo dall'immaginazione contorta, dal gusto raffinato ed eccentrico, non ne uscisse irrimediabilmente colpito?
E sì badi, irrimediabilmente non è un male, è semplicemente un dato, un dato di fatto senza nessuna necessità di cura, anzi un dato di fatto che segna un tempo costruito da attimi sempre più rari.

"E com'è finita Luì?"
"Non è finita, e non è finita solo perché non è mai iniziata"
"Eh ma che stronzataa! Tutto sto casino per niente?"
"No no, niente è quando niente ti viene trasmesso, niente è quando niente resta, niente è quando ti trovi in mezzo al sostituibile, niente è quando non ti accorgi di chi ti passa a fianco. Quello che ti ho raccontato io è tanto, sì sì, tanto tanto, son sensazioni cariche di scintille ed emozioni... vere anche se a senso unico, buone come il caffè."
                                                                    
 

  

Regolamentamente

Quando una struttura inizia ad alimentarsi esclusivamente di regole, prescindendo dalle persone che la compongono, prescindendo dai territori in cui opera, massificando non le procedure ma le specificità, favorendo la conoscenza formale ed organica e limitando gli spunti particolari d’innovazione, la struttura apre la porta al proprio declino.


La regola diventa la scusa dietro cui nascondersi.

Quando Luca, Mario e Giuseppe non sono più ciò che sono diventati grazie a ciò che hanno dimostrato di saper fare, ma diventano punti di raccolta di direttive col paraocchi, la struttura perde il contatto con la realtà.

L’eccellenza nasce dalla valorizzazione delle individualità, che non significa individualismo come troppi credono, ma competenza ad personam.

Vedo organizzazioni perdere posizioni per mancanza di visione, vedo persone confondere il fare con il delegare a prescindere, sempre verso il basso, in modo acritico e senza leve d’azione.

Quando i compiti sono dati a compartimenti stagni senza perché, senza condividere sogni strategici, l’uomo non esce dalla propria area di confort e non produce surplus ma consuma status, e cerca il modo più rapido e indolore per uscire dalla mischia, annientandosi nel quotidiano.

Le battaglie si vincono con cuore e con ragione, è per questo che servono uomini e non masse compiacenti.
È per questo che servono individui liberi che pensano all’interno di organizzazioni eccellenti, che non temono la concorrenza d’idee ma si arricchiscono di competenze in competizione.
Il resto è sconfitta o tutto al più rapido parassitismo.


Sessantottopercento sensazioni

“Ciao”
“Ciao”

“Com’è?”
“Cosa?”

“Come cosa? Lei!”
“Ah! Allora Chi!!!”

“Sì, lei insomma... dai”
“Bella”

“Solo?”
“Perché Bella ti sembra poco?”

“No, ma un tempo mi avresti sommerso con un profluvio di aggettivi per descriverla”
“Vado sintetizzando questa sera, Bella con la B maiuscola spiega già molto da sè”

“Maiuscola?”
“Sì, la B”
“Ah”

“Vedi... quando incontri una donna mai vista prima  il sessantotto per cento è sensazione, il dodici per cento è pregiudizio e il venti per cento è caso. 
La sensazione la fa sempre da padrona perché è lei a  trasmettere...”

“Trasmettere cosa?”
“Trasmettere il senso”

“Il senso?”
“Oh ma qual è il problema, perché mi fai ripetere continuamente?”

“Dai vai avanti”

“Il senso di sé. 
Semplicemente il senso di sé.
La sensazione cattura i particolari e i particolari danno il senso al tutto.
Particolare è ciò che dice e come lo dice, il tono, lo sguardo mentre ascolta, la voglia di raccontarsi ma anche no, i colori, l’impazienza, la nochalance con cui si sfila il giubbotto, il modo di ordinare e bere il caffè, un’antica timidezza nascosta da un’altera e splendente ritrosia. 
Un intuito fuori dal comune malcelato da educati silenzi.
Le gambe.
Le mani.
La cura del dettaglio.
La capacità di nascondere pensieri che vorresti indovinare.
La diffidenza.
I sorrisi in crescendo.
Il rossetto.
La perspicacia.
La complessità, l’evidente complessità.
La forza.”

“E tutto questo tu lo capisci così, al primo fugace incontro per caso?!”
“Sì, esatto così”

“E il dodici per cento di pregiudizio?”
“Si chiama esperienza”

“E il venti per cento di caso?”
“Si chiama culo, ci vuole un gran culo a incontrare per caso una donna così”

“Ed è solo Bella?”
“Con la B maiuscola”

“E quindi che farai ora?”
“Niente, niente più di quello che ho già fatto, le cose che vogliono succedere succedono, tu chiedi una volta, due volte, due volte e mezzo, e poi tocca a loro, alle cose che han voglia di essere, al tempo, al culo e alle sensazioni.
Inutile inseguire oltre il dovuto”

“Dici?”
“Dico”
“Bene....”
“Dai”

“Ciao Luì”
“Ciao Doc”



Emozioni e pipponi

Emozioni - def.

“Le emozioni sono un processo multicomponenziale, articolato in più componenti, hanno un decorso temporale e sono attivate da stimoli interni o esterni” 


Multicomponenziale, la parola più brutta del mondo.

Emozioni, la parola più bella del mondo.


Dicevo ieri: “sono dannato d’emozioni”, mi han detto: “sei libero grazie alle emozioni”.


Ho pensato.


Libertà e dannazione in fondo sono contigue, si sfiorano, s’incrociano, si osservano.


La continua ricerca della libertà non è già di per se una dannazione?

Accarezzare la solitudine per godere contemporaneamente dell’amore - ad esempio - non è forse il modo migliore per essere liberi?

Quando i fatti della vita hanno deciso molto per noi, quando il tempo ha accatastato situazioni e ricordi, quando ci s’incontra condizionati dal proprio passato, dal proprio presente, dal proprio futuro, non è forse l’emozione l’unica via d’uscita?


I cacciatori di emozioni vengono spesso tacciati d’egoismo, d’incapacità d’amore, quando in realtà in ogni gesto, in ogni silenzio, in ogni fuga, in ogni sussulto, in ogni sguardo, in ogni goccia di saliva, in ogni non detto, c’è solo l’intensità di un pensiero complicato ma Vero.


C’è bisogno di vibrare, di godere, di piangere, c’è bisogno di spregiudicatezza, di vento, di attese e impazienza, c’è bisogno di vita, di parole sincere per quanto impossibili.


Troppi figli del piuttosto affollano le vie, il piuttosto a volte lo subisci a volte lo spacci, il piuttosto è la morte dell’anima.

Tra il vero ed il piuttosto c’è la stessa correlazione che c’è tra un Luigi XVI e un’Ikea Kungsbacka, tra l’Esselunga e l’Aldi, tra l’oro e lo stagno.

E il tutto nella consapevolezza postuma che ognuno di noi, almeno una volta ma più spesso due, è stato il piuttosto di qualcun altro.


L’emozione rende liberi sì, liberi di essere veri, liberi di vivere gli attimi, liberi di essere irripetibili, liberi di ricordare.


L’emozione e gli “stimoli interni od esterni”, un po’ come dire sangue ed ossigeno, motore e carburante, sesso e amore, felicità e incompiuto, soli e insieme, caffè e brioche, luce e tenebra, baci e sguardi, pensieri e parole, pensieri e carezze, parole e abbracci (dati e trattenuti), fuori e dentro, mare e vento, unicità e paura, sorrisi e batticuore.


Chiamiamoli cacciatori di emozioni nelle riserve del vivere vero, saranno felici di sentirselo dire.



Credevi fosse vero, era tutto verosimile

Le emozioni... ahhh che belle che sono le emozioni, così stratosferiche, fantasmagoriche, indelebili ahimè, vibranti, rincoglionenti, uniche, gratis come lo zucchero nel caffè, bagnate, calde, rabbiose, insonni, anormali, insostituibili (quelle vere), profonde, paurose, dolci come la cioccolata, rare come la marmellata di more fatta a mano, inutili, sfuggenti ma così persistenti nei loro colori.

Le emozioni sono fatte di luoghi, di sapori, di sguardi, di muretti, di sorrisi che credevi unici, di parole date e ricevute che credevi sincere, di languori, di andare e ritornare, di salite, discese, telefonate annoiate e fuoco e passione, fughe e rimpianti.

Le emozioni sono bar e caffè ai bordi dell’autostrada, sole e castelli, tartare e Sangiovese, urla e silenzi, vibrazioni, panorami e pattìni, foto sopravvissute alla furia della vendetta.

Emozionarsi è struggersi, sprofondare, volare, amare.

Le emozioni sono fatte di non so perché, arrivano da sole e lasciano cenere.

Ma le emozioni sono soprattutto inevitabili, eh sì proprio così.... inevitabili.
Le cerchi, le trovi, te ne innamori e inevitabilmente le perdi affogate nella pozzanghera del verosimile. 
Il verosimile che tutto inghiotte, il verosimilismo, l’evoluzione del nichilismo, credevi fosse vero invece era staminchia.



Vedi papà...

Ciao papà!
Ma che ore sono?
Ah son quasi le otto di sera... ah ma di che giorno papà?
Ma non è possibile?!
Oggi? 
Giugno ventiventi? 
Venerdì? 
Non scrivo mai di venerdì papà e tantomeno di venerdì alle otto.
Ma no dai, è mercoledì, lo ricordo perfettamente, é verde, bianco, c'è il sole... eh no... il sole non c'è più.

E poi perchè non si sente quando mi rispondi?

Ah è vero... ora ricordo...

Vedi papà, lo dicevo io che sarebbe venuto un giorno che avrei avuto un sacco di cose da dirti.
Cose tipo che si diventa grandi lo stesso, che il sole tramonta, che la barba imbianca anche se dentro si resta un po' bambini, che dopo di noi ci sarà  un dopo anche senza un noi, che sorridere è bello... e mi li ricordo i tuoi sorrisi... li ricordo io e li ricordano tutti quelli che ti hanno gravitato attorno.
Dici che "gravitato" è brutto? 
Beh io dico di no.
E sappi che anche se si diventa grandi, a domande del tipo  "ora che faccio?", non è sempre bello rispondere da soli.
E lo sai che non ricordo il tono della tua voce (d'altro canto sei così silenzioso e da così tanto tempo...) ma ricordo il tuo profumo? 
Oh sì se lo ricordo, era buono, sapeva di papà.  
E sappi che ricordo la brillantina... anche se fidati, il gel è meglio, se avessi fatto in tempo a fartelo provare... ma tu niente... tutta quella fretta di andare!

Vedi papà che le cose a volte succedono davvero? L'ho imparato bene in tutto questo tempo.
Dici che è banale come concetto? Guarda no, detta così, digitando tasti alla rinfusa su di una tastiera nera può sembrare un'ovvietà, ma in verità le cose succedono e noi manco ce ne rendiamo conto. 
E come te ne accorgi allora?
Te ne accorgi dopo, dopo sì, dopo che sono successe, perchè dopo non c'è più niente come prima, oh sì... dopo non c'è proprio più niente come prima, dopo è dopo e punto e basta... dopo è mai più.

Dopo cambiano i sogni, sogni già consumati che finiscono con l’incenerire inseguiti dalla foga di un fuoco che brucia troppo in fretta, la fretta di andare e di arrivare prima, prima che ci sfugga anche "quella cosa lì”, come tutto il resto che ci è scappato dalle mani e dalla vita.

Dopo cambiano i modi, cambiano i sorrisi, cambiano gli abbracci, i baci, le carezze, gli sguardi e il modo di osservare, i pensieri e le voglie.

Dopo si diventa incapaci di trattenere la felicità.

Cambia anche il modo di amare.

Dopo si alzano muri, volano silenzi, svaniscono le certezze, si annidano fantasmi, nascono mancanze.

Dopo riesci a toccare la paura.

Prima sei sicuro di essere indistruttibile e alto, lo dici a tutti, poi la verità diventa un’altra... la verità è che resterai sempre e soltanto un bambino vestito da uomo con la faccia da buffone impegnato e gli occhiali da sole.

Hai visto papà quante cose sono successe dopo? 
Eh sì... tante tante, e una proprio bella, bella come te!!

Ma il tramonto? 
Te lo ricordi il tramonto papà? 
E te lo ricordi il tuo orologio?
Io sì, quando lo indosso a me pare che il tempo scorra un po' meno in fretta, a me pare che il sole cali un po' più lentamente, a me pare che lì attorno sia tutto un po' più bello, un po' meno triste... solo un po' però... non troppo... e soprattutto mai per troppo tempo.

Vedi papà, sono cose così, cose che succedono... proprio come dicevo io... ricordalo.





L’allergia di Luì

Innamorarsi a giugno credo possa essere bello, innamorarsi al mare credo possa essere bello, innamorarsi al tramonto credo possa essere bello, innamorarsi e basta credo possa essere bello.

Ma Luì quel giorno non aveva voglia dell’amore, magari un due patatine fritte, una pinta di birra, una piadina con le sarde e lo scquaqquerone, ecco forse le avrebbe gradite di più.

Perché dite voi? Non lo so dico io, bisognerebbe chiederlo a lui, le sarde gli piacciono di questo son certo, ma perché l’amore no questo lo ignoro.

L’amore alla soglia dei cinquanta è raro, raro come lo era lo Swatch Scuba Happy Fish  alla fine degli anni 80.
Lui non aveva cinquant’anni, navigava nell’intorno dei quaranta virgola un lustro abbondante, e c’è una certa differenza ci tengo che si sappia, ma aveva sviluppato comunque una particolare allergia all’arte di Cyrano, il  Bergerac, quello dell’apostrofo.
Lo aveva scoperto un giorno facendo il test, glielo aveva consigliato il dottor Mantegazzi: “Si faccia analizzare signor Luì, lei è autoimmune, un autoimmune di gregge, una pecora del sentimento, faccia un prelievo così ci togliamo il dubbio”.
E così fece.
E così fu.
“Peccato” pensó.
“Peccato ma neanche tanto” aggiunse poi tre giorni dopo, “son cose che capitano”.

L’amore autoimmune evolve, trasmuta, diventa consapevole abbandono alla libertà.

Cerco di spiegare: l’auto immune normalmente si è troppo emozionato nel corso della propria vita, ha dato troppa enfasi al cuore che batte, ai profumi che persistono fuori e dentro, alle notti insonni, ai sogni e ai progetti scaduti, alla speranza di sperare ancora, agli amplessi vibranti, ai baci che colano, ai sorrisi in sincro, si è rotto le balle di tutte queste indigeste farfalle nello stomaco, non che tutta sta roba non fosse fantastica-mitica-mistica e pure eccitante come la marmellata di more, ma ha capito che se sbagli il tempo tutto si sfila e restano i cocci.
Come quando la chiusura di un braccialetto di perle si rompe mentre stai correndo sulla spiaggia, non ritroverai mai più tutte le perline. 

Alcune resteranno sepolte per sempre.

E allora l’autoimmune si rifugia nella libertà, nel calore temporaneo di storie a tratti: ad un tratto una storia c’è, un tratto dopo una storia non c’è più.

È questione di abitudine, di libidine cinica, di raccontarla e raccontarsela, di prendere il bello se e quando c’è così come di sopportare il brutto conseguente.

Credo fosse per questo che Luì quel giorno non aveva voglia di amare.

“Agata ma che ci fai pure tu qui?”
“Potrei chiederti la stessa cosa”
“Beh io sto passeggiando”
“Beh pure io allora”
“Ma quanto tempo è passato?”
“Sborantamila anni”
“Già”
“E perché non sei felice?”
“Ma che domanda è? E che ne sai se sono felice?”
“Ti conosco”
“Tu? Tu conosci me?”
“Sì, lo sai, ti conosco come nessun’altra”
“Lo so”
... 
“Bevi qualcosa?”
“Dove?”
“Che ti frega, dimmi se bevi e dove vediamo”
“Ok, bevo”
“Allora andiamo lì”

Lì c’erano un bar sulla spiaggia, i Ricchi e Poveri che cantavano, un barista grasso, due ragazzetti che limonavano (lui gli toccava il culo sopra a jeans troppo stretti), il sole che scendeva dalla parte opposta, una draga al largo.

“Luì”
“Sì?”
“Mi hai mai pensato in tutto questo tanto che ci è successo”
“Praticamente sempre”
“Ah”
“Non dovevo?”
“Bah, non avresti dovuto, ma tanto lo so che fai sempre le cose sbagliate”
“Hai visto la draga?”
“Si”
“Lavora per me”
🤔 per te?”
“Si, sta cercando una perla sepolta da qualche parte là sotto, la persì un giorno di quella volta che tu eri andata”
“E la cerchi oggi?”
“Sì”
“E perché?”
“Mi ha detto Mantegazzi che è l’unico modo per curare la mia allergia”


I sogni si consumano

Luì quel giorno passeggiava lungo la battigia, l’aria odorava di salsedine (splendidamente banale), fragole 🍓 e tabacco.

I colori erano quelli della primavera inoltrata: giallo, nutella e azzurro cielo quasi blu.

Cinguettii di passerotti mangiapiadina, urla di gabbiani emuli di Livingstone, sciabordio di onde tranquille facevano da colonna sonora.

La brezza leggera.

La sabbia.

I sardoncini.

Poi lì, all’ombra di un pedalò esausto, a due passi dal bagno diciassette, Luì inciampò in una "mucchietta" di sogni stantii, logori, financo leggermente appicicaticci, certamente consumati.

Eh già, eh già perché sì, i sogni ahimè si consumano, Luì lo sapeva, lo sapeva da tanto tantissimo tempo, da quando ancora  poco più che tardo adolescente di mezza età tutto ad un tratto smise di sognare.

I sogni hanno una scadenza, “si consiglia di sognare preferibilmente entro il..”, ed entro il è la data fissata dall'orologio del Capitano del tempo.
Un uomo alto il Capitano, barba ben fatta, abbronzato color oliva, capello impomatato, saggio a tratti saccente, lateralmente sfuggente, un po’ poeta e un po’ stronzo, certamente autorevole.

Un giorno il Capitano scrisse un messaggio a Luì, glielo scrisse su Teams (era precursore dentro), gli scrisse così: ”Giovane uomo mettiti comodo, sto per raccontarti una storia, ti racconterò la storia del tempo, la storia del tempo che passa, di quel tempo che per te inizierà a undici quando svegliandoti all'improvviso inizierai a faticare, faticherai moltissimo, faticherai e suderai e in mezzo a tutto quel faticare principierai pure a sognare! 
Ohhh sììì se sognerai, sognerai a pacchi, tonnellate di sogni, sogni a catinelle, progetti e gloria, enfasi e resurrezione, e ci crederai, ti affannerai, studierai, penserai e allora correrai, correrai tanto velocemente che senza nemmeno rendertene conto arriveranno i ventotto, e qui t'innamorerai e sognerai ancora, lampo inconsapevole di un futuro disperso, e aspetterai, aspetterai poco paziente a dire il vero e pure un sacco imprudente, inconsapevolmente audace e pure un po' rincoglionito. 
Giocherai con la vita giovane uomo, con la vita ed i suoi azzardi, i suoi inciampi, le sue gioie, le sue noie, i suoi slanci di niente che si tufferanno nel tutto senza saper nuotare, finché ad un tratto, tutto ad un tratto, ti accorgerai che saranno già i trentacinque e poi i trentasette, quindi i quaranta o giù di lì, e ad un altro tratto, senza avvisaglie, senza pubblicità né intermezzi, ti accorgerai - un poco svampito - di non ricordare... di non ricordare più l’ultima volta che hai sognato per davvero. 
Finito. Stop. Smarrimento onirico, un virus mutante che obnubila.”

Luì prese il messaggio e lo archiviò nella cartella spam.

Lui questo Capitano non lo capiva proprio, e anche lo avesse capito non lo avrebbe di certo ascoltato, l’ascolto non è la prima qualità di Luì, forse nemmeno la seconda, bisogna dirselo in tutta franchezza, poi che cosa cazzarola voleva dire questo Capitano con quella pioggia di parole in successione?
Non lo so, non lo so nemmeno io che sono il narratore e queste cose dovrei saperle visto che le ho scritte, facciamo che ognuno adesso  si da la risposta che vuole, la mia già la sapete, senza presunzione di verità ribadisco questo: i sogni si consumano.

Sì, i sogni si consumano, si accumulano e poi si consumano, nascono e si consumano, crescono e si consumano, invecchiano e si consumano, stanno fermi e si consumano, si muovono e si consumano.
I sogni arrivano di notte e svampano di giorno.
E insieme ai sogni si consumano i sognatori e si consumano pure i sognati, i sognanti e le sognate, è tutto un consumarsi, è per questo che poi li trovi lì tutti insieme accatastati sulla spiaggia a fine giornata all'ombra di un pedalò insabbiato.

Stanchi sono i sogni ad una certa età.

Lui questo lo sapeva, lo sapeva da tanto di un tantissimo di tempo fa, ma ha sempre fatto finta di nulla.

E allora che fare? Niente, non c’è niente da fare, perché prima di consumarsi ai sogni succede altro, i sogni prima di consumarsi capitano.
I sogni capitano, così, all'improvviso, tra un dire e un niente, tra un sorriso e un bacio, un abbraccio e una lacrima, una ragione e un sentimento, un tutto e un sempre, un brivido di fronte ad un fuoco acceso, malinconico suggello di una sera fatta di emozioni e addii.
I sogni capitano come la pioggia a ferragosto, la neve ad aprile, il sei al Superenalotto al botteghino del Bar Sport e Gazzosa.

Luì finì la sua passeggiata mangiando piadina con le sarde in Casina, bevendo un birra bionda e chiudendo con un caffè amaro.
La ruota immobile faceva panorama, consumata pure lei, monumento del sempre che ritorna, tradizione di ogni estate che si rispetti.
Un delfino saltava lì a fianco... ah no, questo no, i delfini non ci sono più lì a fianco, se sono andati, proprio come i sogni di un bambino neo adolescente di mezza età.