Storie finte di donne vere

Un quartino di Sangiovese caldo della casa, che poi dici quale casa? 

Riflessioni sbilenche e stanche sui fatti della vita, che poi dici quale vita? 

Aspetta un attimo va che mi appoggio qui, proprio qui, qui all’angolo di questo tavolo che sa di briscola e osteria e storie finte di donne vere.

Eh sì, storie finte di donne vere, perché è così che succede alle volte, ci si ubriaca di un quartino di storie finte, storie mai tue, inventate, sconosciute, immaginate, scellerate, fotografate, cancellate, disegnate, colorate, mal vissute, perculate, svaporate, sol pensate, ingannate, raccontate. Che poi dici, raccontate da chi?

E il contorno? Che fanno quei signori fuori fuoco sullo sfondo? Che guardano? Chi guardano? Che vogliono? Che pensano? Aspettano? Chi aspettano? E soprattutto chi sono? Si chi sono loro ed in fondo chi sono io davvero?

Aspetta un attimo va che mi appoggio qui… proprio qui… qui all’angolo di questo tavolo che sa di briscola e osteria.



Tre bianchi, uno blu, tre bianchi. Il vento spazzolava la battigia e spettinava le menti e i ciuffi

La verità è che non riuscirà mai a perdonarsi, non riuscirà mai a perdonarsi per essersi lasciato usare in quel modo, ne era consapevole, molto consapevole, era tutto così evidente, ora come allora, ma lui ha lasciato fare, si è inzerbinato, ha traghettato, ha lasciato che dignità e orgoglio fossero sopraffatti dalla vacuità di un sentimento mono-direzionale.
No l’errore è stato ed è imperdonabile.

Il vento spazzolava teso la battigia, Aziz spegneva gli ombrelloni uno ad uno, un blu, tre bianchi, un blu, quelle stupide gocce di pioggia cadevano a tratti, a volte insistenti a volte evanescenti, solo pochi irriducibili si ostinavano comunque  sugli sdrai, avvolti in teli colorati che venivano utilizzati come impermeabili poco abili. 

I DJ dei ciringuito continuavano a sparare musica a caso, un afro cubano al 26, un pop-rock al 27, Raffaella Carrà che arrivava non era chiaro da dove, un caos melodico mica da ridere, a cui facevano da contorno pantaloncini, felpe, canotte, infradito e snickers, tutto insieme, conseguenza di questo meteo che confondeva temperature ed idee.

Ad un tratto la scena fu occupata da un gruppo di amici che festeggiava l’addio al celibato di uno di loro, 23 settembre la data fissata, sabato, il promesso sposo (lo sposando) aveva una parrucca viola, occhiali da sole scuri, una maglietta personalizzata e grandi manette in plastica. Si sedette con loro, iniziò a parlare chiedendo spiegazioni sull’assenza della madre nell’ambito di quello che per lui doveva essere naturalmente un terzetto, ma soprattutto voleva essere rassicurato per la scelta: “Dai dimmi se faccio bene? Posso ancora scappare!” - “Fai benissimo, tranquillo, sono certo, e te lo dico io che di queste cose ci capisco!” - “Allora grazie, sono più tranquillo adesso e giuro, normalmente non sono così!” - “Ma non preoccuparti vai bene anche così, sei un simpatico naturale!”.

In fondo era tutto vagamente surreale, pensieri serissimi viaggiavano in mezzo a situazioni al limite dell’assurdo, spacciatori sull’autobus che lasciavano il posto a sedere ad anziani e bambini, gruppetti di tatuatori indiani che sfanculeggiavano controllori che non controllavano, un bimbotto napoletano di 136 kg con un finto cappello di Gucci, una finta tracolla di Gucci, finte scarpe di Gucci, finti pantaloncini di Gucci, una t-shirt della Coop.

Il mondo è bello perché è avariato.

In mezzo a questo variegato zoo umano Luì rifletteva su ciò che gli era successo negli ultimi mesi, su ciò che aveva perso, anzi su ciò che non aveva mai avuto per essere precisi, ed inghiottito dal vuoto non potè non soffermarsi almeno per un attimo su quello che aveva lasciato andare perché sempre e chiaramente troppo uguale a tutte le ragioni che ne decretarono la fine qualche anno prima. L’errore questa volta è stato pensare (anche solo per un istante) che potesse essere diverso, ma le persone non cambiano, e incontri fugaci in periodi tormentati, confusi e già occupati dal niente non portano nulla di buono, per nessuno. Quindi assolutamente meglio così. 

Mancava ancora una mezz’oretta all’ora di cena, sta cosa dei due turni non era proprio l’ottimo, soprattutto il non poter cambiare in corsa li infastidiva, in questo modo non potevano né liberarsi dei molesti vicini di “tavolo” drogati di Coca Cola né conoscere meglio i fratelli col ciuffo, sedicenni spettinati che incuriosirono molto Giulia fin dal loro arrivo e che ormai era certo frequentassero lo slot 19.15-19.45. Giulia e Luì decisero che la prossima volta, a Parigi, avrebbero studiato meglio la situazione prima di prendere decisioni strategiche: “papà dobbiamo seguire il piano, non andare a caso”.

Era una vita che Luì faceva piani a caso, o per caso, o a cazzo che forse è più appropriato per descrivere la realtà, ed una volta fatti manco li seguiva, e se capitava era comunque contro la sua volontà, per causa di forza maggiore diciamo. Difficilmente avrebbe cambiato modo di essere alla sua età, e aggiungerei purtroppo.