Il lieto fine

Mi chiedevi un lieto fine, beh intanto cominciamo col dire che il lieto fine è una contraddizione in termini, se finisce non è lieto, a meno che non si stia parlando di una colonscopia senza sedazione a metà luglio, che effettivamente vedere la fine una certa gioia in ogni caso la procura.

Questo detto bisogna poi aggiungere che quando si racconta una storia a pseudo lieto fine si rischia di (s)cadere nella banalità, nella scontatezza o se va bene di essere assunti alla Harmony come correttore di bozze, il che effettivamente potrebbe essere pure piacevole se ti pagano bene.
Comunque al di là di questi sofismi da Bar Stazione io non so se sono capace di raccontare una storia a lieto fine, fatico anche a raccontare storie a lieto inizio, perché la verità è che gli inizi lieti davvero si contano sulle dita di una mano, molto più frequenti sono gli inizi per forza, gli inizi perché non c’era altro da fare, gli inizi sbandati, o gli inizi finti tali (che significa che sembra che si, ma in realtà non è iniziato proprio niente).
A me viene molto più facile raccontare storie a metà, o storie nel mezzo, o meglio ancora pezzi di storie che meritano di essere raccontati (i pezzi intendo) perché diversi da tutto il resto, o almeno diversi da tutto il resto che è capitato a me, e diversi pure da quello che credo possa essere capitato ad altri (sono presuntuoso alle volte).

Insomma storie così, che ad un tratto ci si trova in un ristorante, vista strada-controviale, pini marittimi illuminati, fuori stagione, una cameriera russa col sorriso impostato da russa, una tagliata al sangue senza contorno che se lo sono dimenticati (doveva essere cicoria), e una sensazione di “vacca boia che roba”.

Fuori faceva freddo, l’omino delle rose aveva una sciarpa verde acqua, non piazzava una rosa manco a schiantare, a ottobre i fiori non vanno evidentemente.

Banale direte voi, cosa c’è di tanto eccezional particolare in una cena? 
Beh in quella c’era l’allure della commensale, che faceva pendant con ciò che meglio rappresenta il concetto di “lieto”. 
Un lieto “mescolato non agitato” (sì lo so non è mia), quel lieto che va ben oltre lo scompenso ormonale che spesso annebbia il cervello maschile, un lieto che ti capita ogni 22 anni e non sai dargli un nome, un lieto da vasca idromassaggio, si ecco tutta questa roba qua che potrei andare avanti per ore ma mi sono già rotto le balle e quindi a sto punto cercate di capire bene da soli quanto lieto fosse.

L’omino delle Rose non era del Bangladesh, era di Forlì, aveva perso il lavoro un anno prima, era stato licenziato per non aver piazzato un milione di fondi comuni ad un vecchietto di 94 anni, da allora vendeva fiori e shottini al gin in riviera.
La sciarpa verde acqua gliel’aveva regalata Sonia, la sua ancora fidanzata nonché ex collega, lei preferirebbe lui si dedicasse a qualcosa di più remunerativo delle rose, ma amava lui e amava il gin e fu per questo molto comprensiva.

La cena a base di tagliata e “vacca boia che roba” stava volgendo al termine, il vino pure era quasi finito, lui aveva uno strano friccichio giusto due centimetri sotto il cuore, non era un’angina ma proprio un friccichio, una cosa mai sentita-mai vista-mai provata. 
Ma non se ne preoccupò, almeno non allora, lo avrebbe fatto diverso tempo dopo, ma questa è un’altra storia che non verrà raccontata qui, qui si sappia solo che quel friccichio è una delle robe più belle ed incredibili e fantasmagoriche e stratosferiche e uau che si possano provare, meglio anche delle scaloppine al limone e del caffè aromatizzato al cioccolato. 
È giusto che si sappia.

Artemio, così si chiamava lo spacciatore di rose, oltre ad essere di Forlì era pure triste, quella domenica era il suo compleanno, non voleva essere lì, ma giusto una settimana prima gli avevano consegnato un container di merce, doveva assolutamente venderla prima di mattina, il gin stava evaporando e le rose appassendo, non poteva permetterselo.
Continuava perciò a passeggiare a vuoto, avvolto nella sua sciarpa, a caccia di qualche innamorato d’accatto, di un play-boy dei poveri, di un single con la sindrome romantica, di bambini con in albergo un criceto da sfamare, insomma di potenziali consumatori delle sue mercanzie odorose.

Distratto dal suo infruttuoso passeggiare non si accorse che sull’altro lato della strada stava una ragazza mora intenta a fissarlo, due occhi di brace, un sorriso dolce come la marmellata Zuegg alle castagne, i guanti di pelle e tra le mani stringeva un pacco bianco con il fiocco rosso.

Lei era Sonia, e quella domenica era il compleanno di Artemio. Sonia era lì per fargli una sorpresa, ma non riusciva ad attraversare la strada, era troppo emozionata, lo guardava e sorrideva, ed al tempo stesso lacrime calde le attraversavano il viso.
Ad un tratto prese coraggio e  “Artemio…. ciao…”
“Hei Sonia, ma tu? Che ci fai qui? Fa freddo!”
“Buon compleanno Artemio, ecco che ci faccio qui, buon compleanno uomo più bello del mondo””
“Mah….”

Le parole questa volta non riuscirono ad accompagnare i pensieri di Artemio, questa volta non fece altro che avvicinarsi a Sonia, questa volta non disse altro che “grazie amore mio” e la baciò sul collo, proprio lì dove poi la pelle diventava d’oca, e le regalò le 68 rose rosse che non riusciva a vendere a nessuno, leggermente appassite invero, ma ancora comunque bellissime. 

La cicoria…., chissà come sarebbero andate le cose se la cameriera russa non avesse dimenticato il contorno alla cicoria, probabilmente non sarebbe successo nulla, e tutti avrebbero fatto in tempo a salvarsi, e quello sì che sarebbe stato un bel lieto fine…. 
Vabbè chiudiamola qui, non avremo mai la controprova, chiudiamola qui non prima però di aver detto anche noi l’ultima cosa: “Buon compleanno Artemio, buon compleanno come così buono non ti capiterà mai più, e alla Sonia sposatela, e se non la vuoi sposare amala e basta, che state proprio bene insieme! E “proprio bene insieme” è raro, raro vero, quindi approfittane.





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