Il delfinario e le puppe a pera

Alta, bella, castana naturale “mesciata” bionda e con “le puppe a pera”… camminava veloce, molto veloce, lo spettacolo dei delfini stava per iniziare, soffiava il vento e soffiava contrario, faticava da matti…

Arrivò pochi attimi prima dell’inizio, giusto in tempo, dodici euro il biglietto, due pezzi da cinque, una moneta da due, entrò. Prese posto in seconda fila, la maglietta bianca, i pantaloncini blu, le sneakers candide e i lacci oro, Lula la Delfina madre nuotava a filo, molti tanti bimbi urlavano e saltavano tutto intorno, erano felici.

L’ultima volta che vide uno spettacolo al delfinario fu nel duemilasei, una vita fa, come allora portava i capelli raccolti in una coda svolazzante, mangiava liquirizie ripiene, e sorrideva. 

Gigi, un ometto di anni otto e centoventicinque centimetri d’altezza le si avvicinò presentandosi: “io non ho un delfino sai, ho un cane, è marrone e bianco e abbaia un sacco, si chiama Oscar, va pazzo per i biscotti, ora è a casa con la nonna. Tu ce l’hai un cane?”

“No, non più, ce l’avevo, ma sai… vivo in città, sono sola, spesso sono fuori per lavoro, morirebbe di fame! Ma se un giorno dovessi riprenderlo lo chiamerò Oscar come il tuo, è un nome molto bello”

“Lo so, l’ho scelto io, ora però guardiamo lo spettacolo”, e scappò dai genitori.

Lula era in forma splendida, saltava e mangiava pesciolini premio, armonia e naturalezza, non era nata per fare quello ma sembrava non le importasse, ora era lì, quello era il suo “lavoro” e le piaceva, le piaceva far divertire tutte quelle persone corse ad ammirarla, era innamorata dei suoi istruttori, era a suo agio, con buona pace di tutti quelli che la volevano libera, la sua libertà era quella è non voleva altro, si capiva guardandola.

Agata provò una sensazione davvero strana,  proiettata in un tempo che fu, per un attimo perse contatto col presente, si guardò attorno ma lui non c’era, continuò a cercarlo con lo sguardo, niente, rifocalizzò, si erano mollati molto tempo prima, quando lui decise di restare con la moglie, Luisa, e con i suoi tre figli, ca va sans dire…

È buffo come i ricordi si dilatino dopo i quaranta, tutto sembra successo poco prima, a volte pochissimo prima, spesso sembra non sia mai successo davvero. Restano solo le emozioni, i profumi, i colori, le cose non dette e una miriade di piccoli dettagli scollegati, tipo una ciotola di fragole e panna, una bici rubata, l’appartamento al mare al secondo piano vista strada, il beep del telepass quando la raggiunse quella notte di fine agosto solo per darle un bacio e dirle “sei bella”, il riflesso delle fiamme del caminetto sui loro corpi nudi, il retrogusto di caffè.

Lo spettacolo le piacque davvero al netto di quell’attimo di smarrimento, Gigi la salutò con la manina paffuta mentre saettava verso l’uscita, lei sorrise.

Aveva voglia di bere, qualcosa di leggero, fresco, moderatamente alcolico, una roba da donne, che lei - fuori da ogni new convention di quel tempo - amava dividere tra cose da uomo e cose da donna: lui capelli corti e lei capelli lunghi, lui guidava e lei si lasciava trasportare, lei poteva essere volubile lui no, lei corteggiata e lui corteggiatore, lui vino rosso e lei vino bianco, lei depilata lui peloso, lui con la O e lei con la A, lui doveva amarla lei pure, perché questo sì era universalmente consentito, anzi non solo consentito… doveroso proprio!

Lei sapeva fin dall’inizio di Luisa, sapeva dei tre figli, sapeva che non li avrebbe mai mollati, forse sapeva perfino che era giusto così, ma si lasciò trascinare ugualmente in tutto quel tutto che poi accadde. Per diciannove mesi si vissero senza sosta, sospesi tra il quotidiano ed il caos, tra bugia e verità, tra amplessi in ufficio e coccole in macchina, caffè e fughe fuori porta, corsi d’aggiornamento e “ho dimenticato il cell al lavoro, rientro subito Lu!”.

Erano intimità, confidenza, silenzi, sguardi che spiegavano, fuoco, problemi e consigli, sorrisi, bottiglie di vino, lenzuola gualcite, telefonate indispensabili e sborantamila messaggi e messaggini, spesso superflui e insensati.

Ma finì, come tutto finisce, il giorno, la notte l’estate, l’autunno, l’inchiostro della stilo, il diesel nell’auto, la nutella, il tubetto di maionese, le lacrime, la vita, pure quella finisce si sa.

Finì di mercoledì, in quel baretto vista parco, lui non disse niente, la guardò, lei rispose “hai deciso?”, lui non disse niente, lei aggiunse “addio”, lui non disse niente, lei si alzò , lui non disse niente, non si videro più.

Ordinò un traminer, “freddo e patatine”, lo scorse due tavoli a fianco, un po’ invecchiato e leggermente appesantito, jeans blu e scarpe gialle, era solo, lui la vide, sorpreso ma nemmeno troppo, “sei sempre bellissima” pensò, gli sguardi non si abbassarono anzi indugiarono con insistenza, lei finì il vino e lasciò le patatine, si alzò, andò verso di lui, “ciao” le disse, lei non disse nulla, lo guardò ancora un attimo e proseguì.

Eh sì, lui “ciao” e lei proseguì senza dire e senza fermarsi, perché le donne - quelle vere - fanno così. E gli uomini? Beh gli uomini… gli uomini pure… “ciao”.