Maledetta fantasia

Diventare grandi troppo in fretta è un problema.

Non si dovrebbero mai anticipare i tempi, lo sconsiglio vivamente, la vita è fatta di tappe che vanno attraversate nel giusto ordine, con il giusto equilibrio, con la giusta calma.
Invece a volte accade che il destino, le robe, le costrizioni, l’impazienza, piuttosto che un’irrefrenabile convinzione di autosufficiente onnipotenza, condita da uno spasmodico senso del dovere, portino a stravolgere la scaletta.

Ho visto bambini travestirsi da adulti, adolescenti atteggiarsi a vecchi consumati ed unti fino a perdere quello che doveva essere il momento più bello, ho visto la voglia di vivere soffocata sotto strati di non si può, ho visto il lato deteriore dei sedici, gli impossibili diciotto, ho visto perdersi i ventiquattro, poi i trenta, così come tutto il resto, finché tutti questi adolescenti mal cresciuti, ma proprio tutti… si sono trasformati in cinquantenni noiosi ed infantili.
Mezzo secolo di niente.
Pipponi e cotillon.

E quando si arriva lì, e dico questo da attento osservatore, talmente attento da sembrare protagonista, solo una cosa resta in cui rifugiarsi, sollievo e maleficio al tempo stesso: la fantasia.

Quella fantasia che in fondo ha consentito di raggiungere il futuro, scavalcando ostacoli e cumuli di nefandezze, quella fantasia che faceva immaginare ciò che mai sarebbe successo, ma ci riusciva talmente bene che sembrava tutto vero.

Quella fantasia che trasformava il dopo in domani, magari dopo domani, o anche dopo dopo domani, e lo faceva con tanta naturalezza da far sembrare tutto perfino plausibile.

Quella fantasia che quando il domani arriva, perché prima o poi arriva, si chiama scorrere, ti fa vedere quello che non c’è, costruisce convinzioni e sentimenti monodirezionali, fatue illusioni, dolci autoinganni, vani ed eterei tentativi di riprendersi quel tempo che non è mai stato e mai sarà.

La fantasia colora di rosso il grigio, accende i sorrisi e inganna la realtà, sfiorandola, circuendola, lambendola, accarezzandola, trasformandola in fantarealtà.
La fantasia fa sembrare i baci passione e non solo quantità, esperimento, traghettamento, zattera.
La fantasia costruisce mostri e angeli, tutto e niente, ti accompagna durante il giorno, durante la notte, durante l’estate. 
La fantasia acceca, rincitrullisce, ingigantisce, scaraventa negli abissi, e questo soprattutto quando lotta (irrimediabilmente soccombendo) con la realtà.

Ho visto giovani mai stati finire così, massacrati da eccessi di fantascienza, travolti dal verosimile a pois, ingannati da loro stessi.

Diventare grandi troppi in fretta è un problema, non si vive il proprio tempo e ci si illude di poterne costruire uno fantastico che consenta di recuperare, non succederà, tranquilli, perché ciò che è perso è perso, e pertanto non ci si dovrebbe affannare, semplicemente si dovrebbe aspettare lo scorrere inesorabile che tutto rimetterà in ordine, sperticandosi fino alla fine - questo sì - affinché lo stesso salto, la stessa sorte, la stessa illusione, non tocchi nessuno dei piccoli germogli che dipendono da noi, perché in quel caso sarebbe davvero delittuoso.



Il portalettere, Giulia, il lago di Como, le cose da non dire

Dormiva poco ultimamente, probabilmente l’età stava iniziando a fare effetto, i ritmi circadiani erano impazziti, o perlomeno leggermente alterati, e pertanto così suscettibili come sono si erano messi a far casino, notte-giorno non proprio ben definiti, sogni che iniziavano in fase Rem e sconfinavano pure nella NRem, con il risultato che “le ore di non riposo” battevano le “ore di riposo” tre a due, spesso anche quattro a uno, così che la battaglia veniva persa quasi ogni notte, tanto da portarlo - a fine campionato - abbondantemente fuori dalla zona Champions.

In questo eccesso di veglia il nostro Luì si era ricostruito il suo precario equilibrio, aveva allungato i tempi della cena, anticipato la colazione, era riuscito pure a minimizzare i momenti “morti” rispolverando logore abitudini tanto odiose quanto rassicuranti, insomma aveva ridotto al minimo i momenti di confronto con se stesso, troppo pesanti anche per uno come lui che spacciava resilienza (che parola di merda!) fin da bambino.

Quel giorno la incontrò per puro caso, la vide uscire dal portone numero 17, non riuscì ad evitarla nonostante lo zigo-zago tra le auto parcheggiate sul corso..

“Hei ciao, che ci fai da queste parti?”
“Mah nulla, passeggiavo”

Era bella, molto bella, come sempre, sudata, i capelli raccolti, le scarpe rosse, la sigaretta, sorrideva.

“Come stai?”
“C’è il sole, quindi bene direi”
“Diresti?”
“Direi… sì”
“Tua figlia?”
“Lei bene senza direi, è diventata grande”
“Immagino, ma solo grande? Nient’altro?”
“Beh tanto altro in realtà, ma grande è la prima cosa che salta agli occhi incontrandola”

Si guardarono per qualche istante senza aggiungere altro, le loro espressioni custodivano sentimenti e stati d’animo contrapposti. Lui era spento, lei radiosa, lui confuso, lei sicura, lui intossicato, lei serena, lui era cambiato (e non in meglio), lei sempre la stessa.

L’omino che portava le lettere si fermò poco distante da loro, era nuovo della zona, cercava l’ufficio dell’avvocato Dario Buonfigliolo, doveva consegnare una raccomandata. 
Li guardò distrattamente, quel casco bianco con la striscia gialla gli stava una taglia più grande, non dava professionalità alla figura.

“Ok allora… allora ciao, io vado..”
“Sì, si è fatta una certa… vado anch’io…”
“Mah… volevo dirti”
“Nulla, non volevi dirmi nulla”
“Ah ok. Sì effettivamente non volevo dirti nulla”
“Ciao”
“Ciao”

“Un raccomandata 1 per l’Avvocato”
Il tono del portalettere era stentoreo, a dispetto del casco e dell’apparente insipienza.
“Salga al primo piano, interno 1, sono Giulia”
“Giulia… bel nome”, pensò.

Quando c’è qualcosa da dire che non vuol essere ascoltato è meglio tacere, perché insistere dilungandosi in spiegazioni non richieste? Nel bene o nel male non importa, repetita non iuvant quasi mai.
“Volevo dire…” - “Nulla… so già tutto, non serve andare oltre”.
A volte ci si perde nello spiegare ad altri quello che invece vogliamo solo ribadire a noi stessi, per il piacere di auto-ascoltarci così da fingere di essere ancora qualcosa, per auto-assolversi, per rallentare il palese, si indugia in inutili dettagli, si sproloquia apparecchiando evidenti ovvietà, e chi ascolta o si frantuma i coglioni o semplicemente non sa rispondere.

Luì a questo era arrivato, aveva detto anche più di tutto quello che c’era da dire, aveva fatto anche più di tutto quello che c’era da fare, ora non aveva voglia di sentirsi raccontare altro, da nessuno, né da lei, né tantomeno da quei pochi pochi che di tanto in tanto gli stavano vicino e che spacciavano consigli a cazzo.
Non per una presunta e spocchiosa superiorità, non per la voglia di fuggire la realtà, ma semplicemente perché già sapeva.

“Guardi Giulia mi metta una firmetta qui, ecco così… e una anche qui!”
“A posto?”
“Mah veramente vorrei chiederle ancora una cosa?”
“Dica?”
“Ma mi lasci il tuo numero?”
“Ma lei è sempre così screanzato e diretto?”
“No, ma per te ho fatto un’eccezione”
“…”
“Chiamami in ufficio, forse ti rispondo”
Il portalettere è il mestiere del futuro, sempre più raro, sempre più inutile, è l’unico che riesce ad entrare nel cuore delle segretarie degli avvocati alle 10.30 del mattino.

Si allontanarono così, come se il tempo passato insieme fosse stato il più inutile di quello fino ad allora trascorso, un incidente spazio/temporale lo avrebbe definito Albert, strascichi di disagio per lei, residui di mai visto una roba così per lui. 
Punti di vista opposti per la stessa cosa, punti di arrivo convergenti ma “per e con” motivazioni antitetiche.
Servirebbe un poliziotto a fare ordine in tutto sto caos.

Luì di lì a poco sarebbe partito per Como, voleva capire che cosa gli stava succedendo, un’amica gli aveva consigliato di passare là un po’ di giorni.
 “…in quel posticino vista lago, puoi fare il mio nome, non sanno chi sono ma per evitare figuracce fingeranno di conoscermi, scegli la camera numero 9, è accogliente, al limite dell’avvolgente. Porta le scarpe da ginnastica, il lungolago merita, soprattutto tra le 6.45 e le 7.36, poi caffè all’Hemingway, il caffè fa cagare ma sono certo che a te la location piacerà da impazzire. La sera non stare a perdere tempo, dormi se non trovi nulla di meglio da fare”. 
Così gli aveva detto, a lei non difettava certo la capacità di sintesi.





Alluvione

E poi c’erano vite accatastate sulla via, cumuli di ricordi, tonnellate di storie passate, pezzi di futuro incastrati a residui di presente, tutto terribilmente confuso, sporco, fetido, ferito, umido, a tratti nauseabondo.

L’acqua aveva sommerso ogni cosa, anche i sogni, aveva infradiciato le aspettative di Giulia e Antonio, sessant’anni in due, da poco nella nuova casa, dipinta di fresco, con quel lettone morbido stracolmo di cuscini e il tostapane azzurro american style, tutto svampato ed inghiottito dal gorgoglìio.

E pure Giorgio, triste già prima della piena, immerso da sempre nella sua pesante solitudine…. oggi manco più quella aveva salvato, sfollato tra gli sfollati, ancora solo ma impilato tra decine di sventurati come lui. 

E Angela, studentessa ed artista, amante della musica, dell’incenso e dei colori, che nonostante la tragedia è riuscita a trovare il mezzo pieno: “toni di grigio su fuseaux lilla, mi dona parecchio”, dichiarò ai cronisti.

E Carolina, solo lacrime, infradito e pigiama, tutto il resto da ricostruire-rifare-ripensare-riprogettare, aspettava Dino, era fuori per lavoro, ma lei aveva bisogno di lui e Dino arrivò. 
Non tutto era perduto.

E poi camion, autobotti, sirene, elicotteri, auto, pale, sacchetti di sabbia, mancavano solo le trincee, perché tutto sembrava guerra, tutto sembrava lotta.

Un paio d’anni fa andava di moda il più classico dei “ne usciremo migliori”, oggi qualcuno si chiede “ne usciremo?!”, qualcun altro beve vino e tace.

Le automobili sono più affrante dei loro proprietari, qualcuna di loro è morta affogata, una Ford Focus bianco perla sta agonizzando in officina da tre giorni, non ce la farà.

Le pompe sono diventate introvabili, le idropulitrici le paghi a grammo e ti consigliano di conservarle in cassaforte dopo l’uso, i baci con la lingua sono scesi del 36% in quantità, del 62% in qualità, e già prima non è che il dato fosse esaltante.

Ma una cosa l’acqua non è riuscita a cancellarla e non ci riuscirà, si tratta dell’espressione di chi ha già tolto il fango, i quasi puliti, i reduci del “ce l’abbiamo fatta”, i primi ad aver scavato, asciugato, aspirato, spalato, caricato, quell’espressione da veterani un po’ afflitti, un po’ euforici, un po’ incoscienti ed un po’ sereni, si sereni, magari per poco, forse per molto poco, ma comunque sereni. E la serenità, anche se solo per un istante, conforta.

“La vuoi una Ceres, guarda che aiuta”
“Meglio di no, non credo sia una buona idea”
“Fidati, meglio del Brufen”
Girava tutto, girava tutto “molto vorticosamente”, era già capitato e ricapitò ma non riusciva ad abituarcisi fino in fondo, forse la stanchezza, forse la rabbia, forse l’impotenza figlia della mancata soluzione, forse l’insonnia, forse 105 la massima e 48 la minima, forse il fango, ma la Ceres restava comunque un azzardo mica da ridere in quella condizione.
Optò per un te caldo non appena raggiunto il proprio inutile e vuoto angolo di conforto.

Il rumore dell’auto-spurgo che ricaccia quella melma melmosa nel greto ancora scosso del fiume ha un non so che di consolatorio, “fottiti merdaccia” è il sottotilo, fuori da casa mia la chiusura.