Il delfinario e le puppe a pera

Alta, bella, castana naturale “mesciata” bionda e con “le puppe a pera”… camminava veloce, molto veloce, lo spettacolo dei delfini stava per iniziare, soffiava il vento e soffiava contrario, faticava da matti…

Arrivò pochi attimi prima dell’inizio, giusto in tempo, dodici euro il biglietto, due pezzi da cinque, una moneta da due, entrò. Prese posto in seconda fila, la maglietta bianca, i pantaloncini blu, le sneakers candide e i lacci oro, Lula la Delfina madre nuotava a filo, molti tanti bimbi urlavano e saltavano tutto intorno, erano felici.

L’ultima volta che vide uno spettacolo al delfinario fu nel duemilasei, una vita fa, come allora portava i capelli raccolti in una coda svolazzante, mangiava liquirizie ripiene, e sorrideva. 

Gigi, un ometto di anni otto e centoventicinque centimetri d’altezza le si avvicinò presentandosi: “io non ho un delfino sai, ho un cane, è marrone e bianco e abbaia un sacco, si chiama Oscar, va pazzo per i biscotti, ora è a casa con la nonna. Tu ce l’hai un cane?”

“No, non più, ce l’avevo, ma sai… vivo in città, sono sola, spesso sono fuori per lavoro, morirebbe di fame! Ma se un giorno dovessi riprenderlo lo chiamerò Oscar come il tuo, è un nome molto bello”

“Lo so, l’ho scelto io, ora però guardiamo lo spettacolo”, e scappò dai genitori.

Lula era in forma splendida, saltava e mangiava pesciolini premio, armonia e naturalezza, non era nata per fare quello ma sembrava non le importasse, ora era lì, quello era il suo “lavoro” e le piaceva, le piaceva far divertire tutte quelle persone corse ad ammirarla, era innamorata dei suoi istruttori, era a suo agio, con buona pace di tutti quelli che la volevano libera, la sua libertà era quella è non voleva altro, si capiva guardandola.

Agata provò una sensazione davvero strana,  proiettata in un tempo che fu, per un attimo perse contatto col presente, si guardò attorno ma lui non c’era, continuò a cercarlo con lo sguardo, niente, rifocalizzò, si erano mollati molto tempo prima, quando lui decise di restare con la moglie, Luisa, e con i suoi tre figli, ca va sans dire…

È buffo come i ricordi si dilatino dopo i quaranta, tutto sembra successo poco prima, a volte pochissimo prima, spesso sembra non sia mai successo davvero. Restano solo le emozioni, i profumi, i colori, le cose non dette e una miriade di piccoli dettagli scollegati, tipo una ciotola di fragole e panna, una bici rubata, l’appartamento al mare al secondo piano vista strada, il beep del telepass quando la raggiunse quella notte di fine agosto solo per darle un bacio e dirle “sei bella”, il riflesso delle fiamme del caminetto sui loro corpi nudi, il retrogusto di caffè.

Lo spettacolo le piacque davvero al netto di quell’attimo di smarrimento, Gigi la salutò con la manina paffuta mentre saettava verso l’uscita, lei sorrise.

Aveva voglia di bere, qualcosa di leggero, fresco, moderatamente alcolico, una roba da donne, che lei - fuori da ogni new convention di quel tempo - amava dividere tra cose da uomo e cose da donna: lui capelli corti e lei capelli lunghi, lui guidava e lei si lasciava trasportare, lei poteva essere volubile lui no, lei corteggiata e lui corteggiatore, lui vino rosso e lei vino bianco, lei depilata lui peloso, lui con la O e lei con la A, lui doveva amarla lei pure, perché questo sì era universalmente consentito, anzi non solo consentito… doveroso proprio!

Lei sapeva fin dall’inizio di Luisa, sapeva dei tre figli, sapeva che non li avrebbe mai mollati, forse sapeva perfino che era giusto così, ma si lasciò trascinare ugualmente in tutto quel tutto che poi accadde. Per diciannove mesi si vissero senza sosta, sospesi tra il quotidiano ed il caos, tra bugia e verità, tra amplessi in ufficio e coccole in macchina, caffè e fughe fuori porta, corsi d’aggiornamento e “ho dimenticato il cell al lavoro, rientro subito Lu!”.

Erano intimità, confidenza, silenzi, sguardi che spiegavano, fuoco, problemi e consigli, sorrisi, bottiglie di vino, lenzuola gualcite, telefonate indispensabili e sborantamila messaggi e messaggini, spesso superflui e insensati.

Ma finì, come tutto finisce, il giorno, la notte l’estate, l’autunno, l’inchiostro della stilo, il diesel nell’auto, la nutella, il tubetto di maionese, le lacrime, la vita, pure quella finisce si sa.

Finì di mercoledì, in quel baretto vista parco, lui non disse niente, la guardò, lei rispose “hai deciso?”, lui non disse niente, lei aggiunse “addio”, lui non disse niente, lei si alzò , lui non disse niente, non si videro più.

Ordinò un traminer, “freddo e patatine”, lo scorse due tavoli a fianco, un po’ invecchiato e leggermente appesantito, jeans blu e scarpe gialle, era solo, lui la vide, sorpreso ma nemmeno troppo, “sei sempre bellissima” pensò, gli sguardi non si abbassarono anzi indugiarono con insistenza, lei finì il vino e lasciò le patatine, si alzò, andò verso di lui, “ciao” le disse, lei non disse nulla, lo guardò ancora un attimo e proseguì.

Eh sì, lui “ciao” e lei proseguì senza dire e senza fermarsi, perché le donne - quelle vere - fanno così. E gli uomini? Beh gli uomini… gli uomini pure… “ciao”.





Nagasaky Toku, Luca, Ancilla, Agata... noi...


Poi ci sono i personaggi dei libri letti, dei racconti scritti, dei film visti, delle serie compulsate, delle storie raccontate, tutta una marea di genti e situazioni che dopo l'ultima pagina, l'ultimo frame, l'ultimo titolo di coda, l'ultimo bicchiere di vino, l'ultima chiacchiera, finiscono non si capisce bene dove.

E' così.
Scompaiono. 
Un attimo di esitazione, il libro si chiude o le luci si riaccendono, tutto finito, solo il retrogusto di un ricordo appena immagazzinato non si sa dove e non si sa per quanto. 

Sono arrivati per caso questi signorotti della fantasia, senza ragioni apparenti, come capita spesso con le code in autostrada, ce li siamo trovati lì di fronte sullo scaffale della Kentucky di Corso Saffi, proprio-come-mentre frugando nell'angolo del prezzo aggressivo (comunemente noto come la mucchia delle bazze) ci è caduto l'occhio sul ripiano a fianco... ed ecco quella copertina un po' strana, con quel suo fare un po' misterioso, seminascosta, semimpolverata, semilucida e semiopaca (dipende dall'umore), che stava lì a dirci: "dai comprami, sono qui, sono bello, sono pieno di storia, pathos, sentimento, azione, suspense, dai comprami per bacco!".

In realtà la ragione vera per cui abbiamo comprato quel libro è che di fronte al di fianco c’era lei, morettina, età giusta, espressione leggermente annoiata, jeans-blue chiaro e aderente che lasciava al tempo stesso poco e moltissimo spazio all'immaginazione, gamba lunga, caviglia stretta, camicia bianca, sorriso arrogante, un marito, un cane, un figlio maschio, una bici senza pedalata assistita (oggi è importante dirlo per non farsi assorbire dal cliché), e fuori sicuramente un'amica che stava per arrivare, obiettivo aperitivo, uno spritz per l'amica e una cedrata Tassoni per lei.

E noi, avvicinandoci con tutta la finta noncuranza da uomini fisicamente a due passi dall'età di mezzo ma mentalmente tardo adolescenti, spariamo un: 
"Scusa, posso? Se non lo prendi tu L'ultimo passo verso la felicità di Nagasaky Toku lo compro io. E' una bomba, ho letto la recensione su Anobii, otto stelle, anzi forse pure nove, e non puoi immaginarti Luca, il protagonista, innamorato di Ancilla fin dalla seconda pagina, lei muore, alla ottantanovesima, poi riappare alla centotrentottesima. 
Una verve narrativa che Fabio Volo spostati. 
Ah scusa che ore sono? E posso chiederti il tuo nome???"

Lei si gira, noi sgraniamo gli occhi (non chiedetemi perché uso il plurale, ma ho iniziato così, mi sembrava carino e ora proseguo, ma il soggetto è singolare, forse pure single, lui, lei no, si è già detto, sposata, un figlio...), lei ci guarda, e:  "Ah conosci Nagasaky Toku?!"
Noi: "Conosco... sì insomma di vista, cioè per sentito dire, così ne ho letto qualche volta sulle pagine culturali di Tv Sorrisi e Canzoni, ma bravo eh!! Davvero bravo"
Lei: "Curioso, Nagasaky Toku che scrive di Luca e Ancilla.."
Noi: "Eh sì, un orientale rapito dallo spirito dell'occidente, un occidente di provincia, la provincia di Ravenna, tra Russi e Godo, zona di grande charme!! Luca vive lì!"

Lei ci guarda ancora un attimo, sorride, non si capisce se per simpatia o perché forse lavora alla narcotici ed è abituata a trattare con tipi come noi, guarda il cellulare  (l'amica dello spritz si è già seduta e le ha watsappato), si avvia all'uscita, poi prima di scendere i tre gradini che la porteranno in strada si gira, abbassa gli occhiali da sole: "Mi chiamo Agata... e se incontri Nagasaky salutamelo"
Noi: "Va bene, lo farò senz'altro, ma non mi hai detto che ore sono?!"

E' così che nascono le storie, quelle dei libri che ancora non esistono e quelle delle vite che già trascorrono, un susseguirsi di casualità, di sguardi, di detti e di non detti, di voglia di lasciarsi tentare contrastata da amiche fuori che aspettano, di intrighi, di ritardi, di mogli, di mariti, di figli, di noi, di lei, di loro, insomma di un casino di cose e di genti.

Ma tutto alla fine scompare, non per sempre, solo fino a quando qualcuno non deciderà di rileggere quelle pagine, o di guardare quella pellicola (so che è tutto digitale ormai ma dire pellicola fa molto più dandy), o di raccontare la seconda puntata,  o di dar buca all'amica rispondendo al suo watsapp con un: "Hei, imprevisto, molto imprevisto non riesco, scusa scarso preavviso ma tu hai già capito che comunque ero con te! A buon rendere!!"

Fuori piove, le finestre della nostra camera da letto danno su di un cortile interno, glicine e viuzza pedonale a fianco, discrezione (salvo telecamere), ventidue gradi in soggiorno. 
Agata: "Chissà se Nagasaky avrebbe fatto iniziare la nostra storia così?"
Noi: “Dici così sul mio letto sgualcito dopo aver fatto l'amore come se non ci fosse un dopodomani?"
Agata: "No, dico così alla nostra età"
Noi: "Eh non so... tu sei più giovane di noi, tu sei sposata noi siamo vedovi, tu sei bella noi meno, tu sei seria noi no, tu sorridi noi diciamo cazzate, tu ci hai colpiti al primo istante noi ti abbiamo offerto da bere, non lo so se avrebbe iniziato così"
Agata: "Fammi un favore ora"
Noi: "Dicci"
Agata: "Smettila di usare quel cazzo di noi"
Io: "Va bene, però tu baciami e dimmi che ore sono, te l'ho chiesto un sacco di tempo fa!"

Noi (io) e Agata in fondo stiamo bene insieme, non potrebbe essere diversamente, siamo la parte bella della storia, quella che pompa emozioni, ma anche quella che rassicura, che rilassa, che fa pensare, che mette i telefoni a faccia (o pancia?) in giù,  che porta a decisioni sbagliate che tanto avremmo preso ugualmente ma soltanto in maniera un po' più triste. 

Le storie iniziano per caso, come i libri. 
I personaggi crescono per caso, come nei libri. 
Scompaiono per scelta, sempre come nei libri.
Finiscono perché tutto finisce, come le pagine dei libri.
Finiscono bene? 
Finiscono male? 
Finiscono direi, finiscono e basta, perché in fondo che importa se è bene o se è male se comunque è finita??
E questo, non dimenticatelo, di nuovo ed ancora come nei libri. 
Ah!! Stavo dimenticando io una roba: le storie alle volte  "fanno giri immensi e poi ritornano", immensi sì, e poi ritornano sì… ma solo se sei Antonello Venditti, che tra l'altro - ricordiamolo - non fa nemmeno lo scrittore.

E poi un’ultima cosa, erano le "diciotto e cinquanta", l'ora dico, stava scritto nella pagina dopo, mi era sfuggito, me ne sono accorto rileggendo. 

 

I gabbiani.. sai mica dove vanno a dormire?!

Che poi dico io, i gabbiani dove vanno a dormire?

La giovane donna sabbia e bikini giocava a racchettoni con il giovane uomo tatuaggi e barba incolta, ogni due palleggi un bacio, ogni tre baci uno sguardo complice (mica pizza e fichi, ho detto complice), poi un tuffo all’imbrunire tra onde avvolgenti e un freddo della madonna.

Ma loro solo brividi  di passione.


Poco distante Agata rimirava l’orizzonte (cazzarola rimirava!), poteva pure chiamarsi  Giulia, o forse Franca, financo Adele, ma era bella e triste, mi piacerebbe sapere perché… forse il cuore sulla sabbia lo aveva disegnato lei, ma si sa, mai disegnare cuori sulla sabbia, si cancellano!


A duecentotrentaquattro metri lucine colorate e ampi calici, musica anni ottanta e brindisi suadenti, approcci semialcolici e numeri di telefono scambiati come figurine, qualcuno chiamerà qualcuna l’indomani mattina, tra le sette e le sette e un quarto, imbottigliati nel traffico del lunedì.

“Ciao sono io!”

“Io chi?”

“Quello di ieri, camicia bianca e mocassini”

“Ah, ciao!!! Beh io mi chiamo Alice”

“Io Giulio, ci rivediamo mercoledì?”

“Meglio giovedì!”

“Allora facciamo martedì”

“Ok, alle otto passo da te”

“Ma non sai nemmeno dove abito”

“Non importa, ti troverò”

“Come?”

“Scriverò Alice su Google Maps!”

“Va bene, aggiungi pure corso Mazzini, angolo via Sebastiano Cariddi”

“Cariddi?”

“Si Cariddi, sarò vestita di verde”

“Perfetto, a domani!”


Il sole era sparito, lì dietro la baracchina della piadina, “il sogno dello scquacquerone”, Rosario e Concetta bevevano birra e non si guardavano nemmeno, lui non voleva sposarla e lei si stava stufando di aspettare, fidanzati già da tre mesi che bisogno c’era di aspettare ancora?!! 


Il pattino del bagnino si stava asciugando sulla battigia, tutto il giorno a solcare onde, su e giù e avanti e indietro a sorvegliare bagnanti, a vigilare villeggianti, era esausto.

Il bagnino non c’era, turno finito, Annarosa lo stava aspettando a casa, aveva preparato per lui cotolette di sardoncini e patate fritte.

L’abbinamento era certo azzardato ma lei lo amava, e questo a lui bastava.

Finite le sarde avrebbero bevuto vermentino di Gallura e fatto l’amore sul divano.


La barcaccia del pescatore stava salpando, per dove non si sa, a bordo stavano Andrea, due rumeni, un armeno, un napoletano, un cane bassotto nato a Firenze e trasferitosi a Marina Centro un anno prima insieme a Lucilla, la capitana del vascello.


Franco stava seduto sulla panchina vista sabbia, Mia Martini cantava Minuetto sullo smartphone, e intanto raccontava a Giorgia di come avrebbe fatto bene a sfrattare quell’inquilino brutto.

“A dare gli appartamenti in affitto bisogna stare attenti”

“Ah lo so, ma cosa vuoi, c’avevo bisogno”

“E nonostante tutto ha ancora voglia di uscire la sera?” 

“Sì, anche se è grasso e stanco”

“Domani ci saranno 27 gradi”

“Confronto ai 38!”

“Eh già!”

“Sai che non ha nemmeno la televisione in casa?”

“Bah, tanto non c’è mai nulla di buono”

(Quando si dice pensieri in libertà..)


Un venticello frizzante accarezzava tutto quel pezzetto di mondo bizzarro, uomini e donne e cani, storie e storielle, amori-passioni e matrimoni mancati, inquilini e grasse fidejussioni già viste alla Tv.

La normalità è il profilo migliore della fantasia, non c’è che dire, 27 è meglio di 38, e aggiungerei che pure 40 è meglio di 48, ma la domanda resta: i gabbiani… dove vanno a dormire?






Estate

E la luna a riflettere tra il mare e gli scogli… su cosa riflettere poi non si sa.

E la casa del pescatore pronta ad irretire  alici, triglie, sogliolette e romantiche ragazze dalle lunghe gambe e dagli occhi intensi… frittura di paranza mista a sentimento e soirée dalle labbra salate.

E le onde, che se ne stanno lì a massaggiare la sabbia, i gabbiani e i pensieri… idromassaggio alghe, salsedine e speranza.

E il molo che si lascia passeggiare da coppie che si promettono amore eterno, passione eterna, baciabbracci eterni… lei era lì pure lo scorso anno con Giorgino, lui a Ladispoli con Chiaretta… l’eterno è relativo si sa.

E le serate d’estate, calde quando e quanto basta a spogliare donne appassionate e uomini innamorati… strusciamenti di anime e corpi tra afa e musiche rock.

E le vacanze ad ovattare la realtà, a illudere i giovani, a rammaricare i vecchi, a rilassare l’oggi nell’attesa di stressati dopodomani, a far nascere amori e nuove solitudini… immagini a colori di un tempo che scorre in bianco e nero.

Mancano d’artificio i fuochi, ma arriveranno pure quelli, a suggellare il culmine, a costringerci col naso all’insù, a crepitare e scintillare, a far l’amore con la notte, a partorire sorrisi, a nascondere il silenzio, a rendere felici i bambini, a rintronare i ricordi e illuminare i sogni… boati sordi, tra attimi interminabili e ceneri cadenti.





“F”

Qualche giorno fa ho saputo che “F” non c’è più… ha lasciato questo buffo mondo bastardo, già da tempo non si affacciava più su questo raccoglitore virtuale di pensieri e storielle, forse impegnata a lottare per vivere i suoi ultimi istanti, forse semplicemente disinteressata, mi spiace non aver saputo, mi spiace non averla salutata come sarebbe stato doveroso fare…

È amaro rileggere oggi le riflessioni che di tanto in tanto apparivano a margine di questi pezzetti di quotidiano, ha il sapore del fiele.

Luì è triste, perché F aveva qualcosa di bello.

Luì è triste, perché F era tanto giovane quanto intensa nel suo pensare.

Ciao “F”…. solo un delicato ciao…

Domenica pomeriggio

Al mare, tutti al mare se ne stavano, sabbia, beach volley, mojito e bikini, lettini e Piz Buin, baci e sorrisi, urla, schizzi, salsedine… a fine giugno d’altronde capita… ma loro no.

Loro decisero di arrampicarsi in collina, un po’ scazzati, leggermente sudati fuori dall’aria condizionata della loro auto e un po’ innamorati, non si sa bene di chi, forse l’uno dell’altra pur non dandolo a vedere, forse l’una di un altro, forse l’uno di un’altra.

Erano alla ricerca di tramonti e panorama, lui tramonto e lei panorama, parlarono poco e pensarono molto durante tutto il viaggio, a cosa poi non si sa, sembravano cugini più che fidanzati, cugini di secondo grado, due cugini che s’incontrano al bar per caso, nulla da fare e “ci facciamo un frullo da qualche parte” - “va bene, prendi tu l’auto” - “ok, andiamo”.

Trovarono quello che cercavano, era pure comodo.

Di fianco a loro un ragazzo di mezza età (figura mitologica ma reale) camicia bianca e naso lungo, passeggiava col cane chiedendogli di ascoltare le cicale, “senti l’intensità del loro cicalare?”, così questo diceva a quel nero e obiettivamente brutto quadrupede, che lo guardava tra l’attonito e il “ma che cosa ti sei fumato?”. Loro lo osservarono, si guardarono stupiti e sorrisero.

Evviva, un sorriso, evviva evviva.

Di fianco al parcheggio stava una baracchina enoteca gourmet, lui prese due calici di rosso, uno per ciascuno, era comunque un generoso, e s’incamminarono verso il parchetto vista tutto, c’era un tavolino di legno grezzo e c’era pure una panchina con i braccioli rossi (facevano pandan con il sangiovese), si sedettero, uno di fianco all’altra, lei appoggiò la testa sulla spalla di lui, sembrava serena.

“Cin”, “cin”, “a cosa?”, “a… al povero cane costretto ad ascoltare cicale”. Ancora un sorriso.

Il tutto intorno, quello panoramico, era fatto di viti, campi di grano già raccolto, rotoli di paglia sparsi, campanili e casolari, formiche 🐜, valli e colline, acacie e cedri del Libano, silenzio rotto solo da cinguettii e da quelle scassacaz.. delle cicale.

Lei si alzò delicata, il calice nella destra, si avvicinò alla balaustra, pure quella in legno grezzo, lasciò per qualche minuto che il suo sguardo affondasse tra il niente di quello spettacolo obiettivamente bello, poi guardò lui, lui che la stava osservando questa volta attentamente, sembrava proprio fosse lì per guardare solo lei..

Non fosse stato per Elettra Lamborghini che usciva dalle casse della baracchina la scena la si poteva immaginare pure romantica.

Non fosse stato per quel dialogo afono fatto di sguardi e di altrove, li si poteva immaginare pure una coppia per davvero.

Come succede che ad un certo punto capita che non ci sia più niente da dirsi? È strano ma è molto più frequente del morbillo, non è eccezione, anzi credo sia eccezione il contrario.

Perché succede? Davvero me lo chiedo. Ci si è già detti tutto? Ci si vuole tenere in serbo qualcosa da raccontarsi dopodomani? Meglio tacere che dire qualcosa di cui poi ci si pentirebbe? Si tace per non tradire le mille balle raccontate nel corso del prima? Si diventa avari di parole? Che sia l’alitosi? O le tonsille infiammate che dolgono al passaggio delle consonanti?

Un’amica mi disse un giorno che a spegnere il dialogo è la passione che se ne va senza lasciare spazio alla complicità.

Io mi permisi di contraddirla in parte dicendo che se c’è complicità c’è pure passione.

Lui la raggiunse alla balaustra, il calice nella sinistra, “mi ami?” - “tu?”. 

Lui non rispose, lei non chiese altro, appoggiò di nuovo la testa sulla spalla. Lui aveva la camicia bianca, lei i capelli neri, erano belli da vedere.

La complicità non lascia mai il posto alla passione perché la complicità è passione, così come il vino è rosso e punto, i baci con la lingua,  la nutella con il pane fresco, i jeans con la camicia.

La complicità non lascia il posto alla passione perché la passione si nutre di complicità (è banale lo so, ma così è) e tutto il resto è fuffa.

“Dici che avremmo fatto meglio ad andare al mare?” - “no, no, al mare no… avremmo fatto meglio a fare l’amore guardandoci negli occhi e sussurrandoci nelle orecchie” - “oggi?” - “no, prima di oggi, direi almeno ieri…”.

“Andiamo?”

“Andiamo..”





Lei, lui, il lupo sulla spiaggia

Pioveva sì, pioveva una pioggerella soffice, fin troppo leggera per quelle nuvole grigie ed arrabbiate che litigavano tra di loro per un posto in prima fila vista orizzonte.

Quei due passeggiavano, mano nella mano, passo passo, tra il bagna e l’asciuga, tra il chiaro e lo scuro, tra il giusto e lo sbagliato.

Sarebbe stata una delle ultime volte che si sarebbero visti, lei aveva deciso, non se la sentiva di mollare quel tutto fatto di niente ma così impegnativo, glielo aveva appena detto... “basta non possiamo più continuare così... non ce la faccio....”.

Lui l’ascoltò senza guardarla, solo le strinse la mano un po’ più forte... sapeva fin dall’inizio che non poteva funzionare, perché le storie così non funzionano mai. 

Proprio mai.

Si incontrarono la prima volta in quel caffè poco distante da dove si trovavano ora, “Bar delle Rose”, lui era da quelle parti per lavoro, lei faceva colazione dopo il turno di notte. Lui normalmente vendeva denaro, lei abitualmente salvava vite.

La notò appena mise piede nel locale, era stanca stanca, si capiva dallo sguardo e dal cappuccino scuro scuro doppio caffè che stringeva tra le mani quasi fosse un’impresa troppo ardua berlo. Quella notte due emergenze in sala operatoria, tutto quasi bene, era soddisfatta.

Le dita erano affusolate e le unghie laccate di rosso, un rosso intenso e luccicoso.

Lui ordinò due bomboloni e un americano in tazza grande, si avvicinò, si sedette di fianco a lei e “ciao, ho scelto quelli con lo zucchero in granella, mooolto meglio!”.

Lei lo guardò come si guardano i pazzi, indecisa tra il chiamare la polizia e sorridere.

La crema era esagerata, strabordava.

Si conobbero così, un anno prima, lei era abbastanza sposata, lui no, lei era bellissima lui meno, lei dolce lui triste, lei emozionante lui pure.

Dal bombolone passarono alle risate, dalle risate agli sguardi, dagli sguardi allo scambio dei numeri, dai numeri alle telefonate sempre più frequenti, poi incontri rapidi a fine turno di lei, poi la passione, poi la confidenza, poi la saliva, poi il desiderio, poi l’intesa, poi il bisogno, poi lei iniziò ad uscire sempre più spesso con “le amiche” che tanto l’abbastanza marito non se ne curava, poi la casa al mare di un amico di lui diventò il loro spazio di fuga dalla realtà, poi iniziarono a volersi sempre un po’ di più, sempre un po’ di più, sempre un po’ di più...

Ora era finita, tempo scaduto.

Un cane era passato di lì poco prima di loro, aveva lasciato impronte delicate sulla sabbia bagnata, lui continuava a non dire nulla, lei tremava, la pioggia scendeva, le onde facevano le onde scivolando prepotentemente a riva..

Le persone s’incontrano spesso nel momento giusto della vita sbagliata, è così che nascono gli errori di cui poi ci si innamora perdutamente. 

Lo sapevano entrambi che non avrebbe funzionato, ma lasciarono che accadesse cercando di prolungare il più possibile quel fantastico “non s’ha da fare”.

Lui la baciò, la sua bocca sapeva di sale e disperazione, continuò a tacere.

Forse le impronte non erano di cane, forse era un lupo, un lupo di mare a caccia di bomboloni.

Non si salutarono, lei andò verso la sua auto, il vento le sollevò leggermente la gonna mentre saliva, la pelle nuda che lui conosceva così bene, lo stivale nero, lo sportello si chiuse silenziosamente.

Lui continuò ancora un po’, camminava lento, “Bar delle Rose”, entrò, “un americano in tazza grande e UN bombolone UNO con zucchero in granella”.

Il barista ad un certo punto urlò, sguardo fisso verso la porta d’ingresso: “incredibile, guardate fuori, un lupo!!!”

Pioveva sì, pioveva una pioggerella soffice soffice.




Siamo tutti Amilcare Rossi... almeno un po’.

Lei stava seduta alla sua scrivania, tutto un ticchettare di tastiera, concentrata sul video ma con un occhio al display del fisso, se Amilcare Rossi avesse chiamato che cosa avrebbe potuto raccontargli? La pratica non era finita, anzi non era nemmeno stata iniziata, era tutta ancora nella testa dell’Amilcare e nelle due pagine di appunti gualciti (fogli a quadretti) che aveva preso durante il primo incontro in azienda, ormai tre settimane prima.

Ritardo imperdonabile, tre settimane tre senza metterci mano, ma quell’abitino nero, sexyserioso tuttoattaccato, la rendeva davvero e comunque irresistibile e faceva un pendant che mai con quelle gambe che uau!!

Lui sfidava la sabbia, crudo e squacquerone, panchina e battigia, Moretti e vento di tramontana, il mare a fare da cornice. Amilcare Rossi non lo conosceva, con quel nome gli stava pure un po’ sulle balle, della sua pratica non sapeva nulla, fosse per lui avrebbe declinato a prescindere, ma lei aveva un sorriso davvero entusiasmante, anzi coinvolgente, anzi impertinente, anzi distraente (distraente sta a significare che se tu la guardi sorridere mentre un altro ti parla tu non capisci cosa dice l’altro ma fai comunque di sì con la testa ed aggiungi “eh già” ad intervalli semiregolari - tutto senza virgole che rende di più l’idea) che non riuscì a pensare ad altro nei settantacinque minuti successivi.

Lei era bella, ma di quel bello che fatichi a descriverlo perché troppo singolare per essere banalizzato in quattro righe.

Lui aveva la pancia pronunciata, pronunciata da chi no si sa ma obiettivamente eccessiva per quella stagione della sua vita, avrebbe dovuto fare qualcosa.

Lei andava verso il domani di corsa, occhiale e savoir faire.

Lui cercava di aggrapparsi ad un ieri più affascinante che  bello, jeans e laissez faire.

Lei ostriche e gazzosa.

Lui champagne e piadina.

Il bagnino del bagno due nell’ottobre scorso aveva abbandonato un moscone lungo la riva, la mega ruspa che spianava la spiaggia doveva zigzagare per non travolgerlo, poteva farlo ma ne aveva rispetto, il quasi natante s’era fatto tutto l’inverno a sfidare le onde, aveva ospitato nelle rare giornate di sole due gabbiani, una coppia di amanti infoiati, un barbone calvo, il direttore commerciale della Case Stratosferic Bank in trasferta in riviera, una farfalla, settemiliardinovecentottanovemilioni di granelli di sabbia, una bottiglia di Sangiovese esaurito (il vignaiolo era ricoverato in una clinica psichiatrica), e ancora lasciava che trovasse ristoro sulla panca a prua il ricordo di quell’unico bacio che lei e lui si diedero in quella fresca mattina di un giorno qualsiasi.

Vedete quante cose si scoprono osservando ciò che ci circonda? Ogni persona una storia, ogni sguardo una passione, ogni giorno un pezzetto di qualcosa che si accatasta da sé.

È divertente osservare ed immaginare, immaginare ciò che è e pure ciò che non è, in questo modo nascono i romanzi, la vita, le gioie, la felicità, le fughe, le coincidenze, le parole inventate, gli incontri, gli scontri, gli aggettivi e pure Amilcare Rossi (a cui - per inciso - il fido non lo concederà mai nessuno).

Dentro ad ogni fantasia c’è un tocco di realtà, in ogni realtà c’è un stilla di fantasia, scrivere è divertente per questo, si confondono le cose così... così che (quasi) tutto diventa possibile.

Firmato A.R.



Il mare d’inverno (titolo banale per schizzi di parole)

Un rappresentante di vini attende che il barista saluti quel cliente che gli parla del nonno novantenne di Riccione, pare sia stato uno forte, aspetta e indugia con lo sguardo sul cappuccino appena servito alla ragazza con le trecce, gambe lunghe e seno prosperoso, regge la sua borsa da lavoro con la sinistra, sono le 9.25 ma è già stanco, si percepisce, non è bello.
Il capo è da lui, passi che è senza biglietti da visita, passi che di lì a poco scriverà il listino prezzi “a mano” su di un blocco a quadretti, passi il tono di voce monocorde pre-tragedia e post-drammatico, passi che guardava il cappuccino e non le tette, ma che abbia rifiutato il caffè offerto dal titolare del Souvenir non si può vedere.
La sua vigna non ha futuro, può iniziare ad estirparla già oggi pomeriggio.

Entrano due ragazze, una bionda e l’altra pure, mascherina e tuta, scarpe da ginnastica e k-way, una ha i fianchi larghi l’altra no, si siedono, non si vedono da tanto tempo, tolgono l’FFP1 e ordinano cappuccino e briosche, poi all’improvviso si alzano e si abbracciano, dicono “daiii” e “finalmenteeee” trascinando all’infinito le “i” e le “e” come fanno abitualmente le ragazze.
Quella più alta e dai fianchi stretti ha conosciuto da poco un ragazzo, lo ha visto per la prima volta tre o quattro mesi fa sulla storia Instagram di un amico mentre faceva yoga, se ne è innamorata, è felice, non so se per merito dello yoga o del ragazzo.
Sono entrambi di Marebello, credo sia importante dirlo, io avrei scommesso su Rivazzurra.
“Siiii”, “daiiiii”, dice l’altra strasorridendo e trascinando all’infinito le “i” come fanno abitualmente le ragazze. 
A me piacerebbe sapere cosa pensa davvero quella con i fianchi larghi di questa neo storia d’amore, mi piacerebbe sapere se pure lei è fidanzataaaaa (e lo scrivo trascinando all’infinito la “a” per calarmi di più nella parte), ma non mi è dato.

Dentro l’atmosfera  è retrò come piace a me, la veranda è retrò come piace a me, la barista (moglie del barista di prima) è retrò come piace a me, il caffè è buono come piace a me, fuori il mare si agita parecchio come piace a me e dodici piccioni goffi cercano riparo dietro una duna, uno di loro guarda i gabbiani, sono certo provi una leggera invidia per tutto quel volare incuranti del freddo.

Il mare fuori stagione è fatto per gli amanti, i muratori, i sognatori e i mafiosi al confino.

I primi lì trovi a metà mattina nei divanetti laterali di Pascucci, defilati ma non troppo... lui con un occhio all’entrata e l’altro sulle labbra di lei, labbra che lo hanno sempre fatto impazzire fin dalla prima volta in cui si sono incontrati in sala riunioni, l’espressione è un misto tra il “non è come sembra, posso spiegarti” e il “andiamo in hotel, abbiamo solo due ore ancora” - già pronto in sostanza per ogni evenienza. 
Lei invece è proiettata verso l’uscita, tranquilla ma non troppo, sicura di sé e del suo rossetto rosso semipermanente che fa pendant con l’intimo d’assalto che indossa sotto un jeans attillato abbinato ad una camicia in seta nera, tacco nove ottimo anche per l’ufficio. 
L’espressione è quella di “quando ti ho conosciuto eri diverso, proprio come mio marito, dai andiamo in albergo che questa storia deve finire prima di giovedì prossimo”.
Se lui fosse un po’ meno annebbiato dall’ormone si accorgerebbe della fine imminente, ma è un cazzone, non c’è niente da fare.

I muratori invece li vedi caricare macerie su van ammaccati fuori da alberghi in ristrutturazione, sigaretta stropicciata d’ordinanza obliqua sul labbro lato destro, sguardo incazzato e pantaloni carichi di calce. 
Sbadilano e guardano i due amanti uscire dal bar, poi li osservano mentre scrutano guardinghi i parcheggi intorno per dirigersi lesti verso l’hotel, già sanno che per lui è finita, sarà l’ultima, i muratori hanno una spiccata sensibilità per queste cose, vedono oltre!

I mafiosi ci sono, lo sai ma non li vedi, te li immagini ma distogli subito il pensiero, in fondo meglio lasciarli perdere, non è importante interessarsene e soprattutto non fa bene.

Infine i sognatori... li vedi passeggiare sulla battigia, poi sul molo, poi tra le dune dell’Hakuna Matata, poi mangiare piadina formaggio e alici accompagnandola con un Sangiovese riserva ma non troppo. 
L’espressione è quella tipica del “cazzarola non mi ricordo più il sogno che stavo facendo, adesso ci penso meglio ma non mi devo far accorgere” e questo da loro quell’aria da cliché ambulante che tanto li aggrada.
Sono lenti e ondivaghi nel loro incedere, come fossero alla ricerca di qualcosa, di qualcuno, di qualchè.
Amano il vento, odiano i rumori, stimano il sole, si commuovono raramente, si rammaricano spesso.
Sono impazienti di diventare un giorno pazienti ma non capiterà mai.
Amano l’amore ma soprattutto la passione e le emozioni struggenti, si rifugiano nella noia, aiuterebbero volentieri a caricar macerie sul van ammaccato.

Pure i muratori sognano, lo so, e anche gli amanti si dice, soprattutto all’inizio, i mafiosi non credo, anche se non ne ho mai conosciuto uno (almeno penso), li faccio tipi soprattutto pratici.






Conobbi un giorno una ragazza... era la più bella, l'aveva dimenticato...

Premetto che ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale, lo scrivo perché ho sempre sognato farlo, aggiungo anche che ogni volta che l'ho letto ho sempre pensato il contrario, sono diffidente dentro.

Conobbi un giorno una ragazza, io ero abbastanza giovane, lei di più, io ero lento, lei veloce, quel giorno (quello non un altro) lei mi disse: "Descrivimi".

Io risposi: "tu sei... tu sei canzoni, sorrisi, capelli bagnati, intensità, follia, baci rubati, felicità, struggimento, lingua, passione, ma anche ricordo, futuro, tutto, nulla, quintessenza dell'inafferrabile".

Poco dopo aggiunsi: "E ancora profumo, sapore, un poco stronza, tua e di nessun altro, indimenticabile, acuta, persa, profonda,  insoddisfatta, orgasmo e fragilità, irrequietezza, sorpresa".

Lei ascoltò perplessa girovagando tra pensieri confusi.

Era bello osservarla nuda tra lenzuola gualcite... le nostre voci, le sue risa e refoli di passione uscivano dalla stanza, la finestra era spesso aperta, le grate non riuscivano a trattenere tutto quel tanto, attraversavano il cortiletto interno, si perdevano nel vicolo semicieco, credo siano ancora lì incastrate in qualche pertugio, tra mattoni sgarrupati e ricordi di comari inacidite.

Il tempo passò, i sogni intiepidirono, le vite dei due semplicemente si sconvolsero nella quasi imprevedibilità del quotidiano, nuovi attimi presero il posto di vecchie abitudini, sonni agitati, notti spesso incapaci di raggiungere il giorno.

Altri letti, altri abbracci, altri altrui.

Bello? A tratti.

Brutto? Spesso

Meglio? No.

E allora? Allora succede così, capita di svegliarsi soli ripensando a quell'unica volta che ci si era addormentati insieme... sembrava vero.

Mi capitò dopo tanto tempo di incontrarla di nuovo, io ero grande, lei era giovane, mi chiese di nuovo: "descrivimi".

Le risposi: "ancora? Tu sei tu!"

E lei: "solo?"

La ripresi doverosamente: "Eh no signorina, non ho detto - tu sei solo tu - ho detto - Tu sei Solo Tu - non è la stessa cosa, non dimenticarlo mai".

Lei cantò ancora una volta, io non restai ad ascoltarla ma sorrisi senza farmi accorgere e andai con passi rapidi e laterali indugiando in quell'ultimo sguardo... bella, era ancora la più bella di tutte, peccato l'avesse dimenticato.