Venanzio e la Gilda. Anzi: "Venanzio. La Gilda.", che sono due cose separate da sempre e per sempre e che un giorno per caso si sono incontrate senza mai incontrarsi davvero.

Com'è che si chiama quando non sopporti più tutti quelli che parlano… parlano… parlano…? 
E si lamentano… lamentano… lamentano…?
E lagnano… lagnano… lagnano…?
Ripetendo all'infinito gli stessi concetti inutili, triti e striduli, che poi concetti è un’iperbole, con quelle voci fastidiose, che aumentano di tonalità mano a mano che il soliloquio prosegue, che non mettono né punti, né virgole e né punti e virgola. 
Che all'inizio provi ad inserirti in quella specie di dialogo ma non ci riesci, primo perché a questi non frega nulla di ciò che avresti da dire e quindi non ti lasciano spazio per entrare, e secondo perché a te non frega nulla di quello che loro stanno dicendo e c'hai provato solo per educazione a dare un tuo contributo.
In verità c’hai provato per poco e poi basta, perché ad un certo punto hai piantato lì quello sguardo perso da ebete collerico a cui sta montando un'istinto omicida che manco John Wick che guarda la sua matita, ti sei perfino alzato per stemperare (che con matita ci sta), sei andato in bagno a fare la pipì e a lavarti il viso (prima le mani s'intende), ripresentandoti dopo un quarto d'ora, e loro ancora lì che manco si sono accorti della tua assenza, stessa identica e ridondante lagna.
Come si chiama? Misofonia? No perché misofonia è poco, perché in queste situazioni non è solo il suono a dar fastidio, è proprio quello che dicono ad essere insopportabile, secondo me si chiama miso-rompi-palle-gia.
Peggio di questo c'è solo che si mettano a toccarti mentre parlano, in quel caso sarebbe davvero due gradini sotto la morte violenta, non voglio nemmeno pensarci.

Ecco, questo fastidio stava diventando sempre più insopportabile per Venanzio (che in realtà si chiama Giorgio ma gli amici lo chiamano Venanzio, perché non lo so, ma è così da sempre), tanto insopportabile da costringersi ad una vita sempre più raminga e solitaria.
Non è chiaro se sia stata la solitudine a cui si era via via abituato a portarlo a quel punto di intolleranza o se sia stato il fato a fargli incontrare solo scassamenti di minchia tanti e tali da fuggire dalle interazioni sociali, non è chiaro ma quella era la situazione. L'incontrovertibile situazione direi.

E dire che Venanzio era un grande, uno dalle grandi potenzialità, glielo dicevano tutti: "Tui hai un futuro Venanzio, nonostante sto nome orrendo". 
Tutti si rivolgevano a lui ogni volta che c'era un problema, "Venanzio mi aiuti? Venanzio che dici? Venanzio mi ascolti? Venanzio ti prego!", Venanzio di qua, Venanzio di là, “Venanzio salvami, Venanzio tu mi capisci, tu mi calmi, tu mi piaci, cosa farei senza di te”. 
Venanzio era nato e cresciuto con le stimmate del salvatore della patria, degli uomini, e pure delle donne.
Soprattutto delle donne, un sacco di donne volevano farsi salvare da lui, aiutare, risolvere, confortare, pure trombare (perché non gli veniva male, almeno così dicono), ma poi una volta risolte, confortate, aiutate, salvate e trombate quanto necessario, sparivano e fuggivano con il meccanico di Via di Sotto n. 3, uno buono solo a fare il bello e maledetto con le mani sporche di grasso, però divertente e un gran ballerino.
Sparivano e fuggivano per poi riapparire di fronte ad un nuovo disagio, che il meccanico mica sapeva come risolverlo il disagio. 
E lui sempre lì, pronto ad ascoltare, proprio non riusciva a fregarsene, mai fino in fondo, perché sta cosa di salvare il mondo un pochino lo esaltava.
Venanzio probabilmente era un narcisista, che anche se non so esattamente cosa mi rappresenta un narcisista mi pare che ultimamente questa definizione vada molto di moda, perciò Venanzio - che alle mode ci tiene con quel suo stile "vagamente" eccentrico - era sicuramente un narcisista e sta vita di gomma sempre in prima fila (gomma in parte bruciata) se l'era un po' cercata.

Un giorno Venanzio incontrò Gilda, bella, oh ma bella di un bello che davvero così bella una ragazza bella non si era mai vista, non una modella eh, non la perfezione, no no, un bello particolare, una roba che se tu la guardavi negli occhi non riuscivi a capirne il colore perché erano talmente intensi e profondi e penetranti e furbi e stronzi che tu guardavi ma non vedevi. 
E il profilo? Greco, o forse Irlandese? Sì sì Irlandese, con quel naso alla francese che in Irlanda va per la maggiore, che poi faceva pendant con le labbra, non gommose, sì leggermente inacidulate, ma giusto due gocce di botulino che danno quel tocco di glamour che dopo i quaranta e prima dei cinquanta fa un fascino che Ornella Muti spostati.
Ed il modo di camminare? Vogliamo parlare del suo modo di camminare (pure un po' sul culo sarebbe opportuno soffermarsi, anche più di un po', ma poi questa storia potrebbero leggerla anche i bambini e allora è meglio non esagerare), camminava che tu solo a guardarla arrivare non potevi non innamorarti in zerodue, non la falcata alla Schiffer anni '80, ma una camminata alla Gilda anno duemilaventuno-duemilaventidue, leggermente ondeggiante, veloce, indaffarata, la gamba lunga e imperfetta come lo strabismo di Venere.
Io Venere in realtà non la conosco, ma so che era leggermente strabica e sicuramente - essendo lei la dea più bella dell'Olimpo e della terra -  se avessi avuto occasione di incontrarla da vicino sono certo avrei avuto modo di constatare che le gambe e l'andatura fossero quelle della Gilda, ca va san dire.

Ma ciò che della Gilda faceva davvero impazzire, ciò che la rendeva bella ma proprio bella tra le belle, come l'ho descritta poco fa, era il profumo di libertà che emanava da ogni dove. Anche dai capelli. 
Opportunista come i gatti, intelligente, sveglia, fragile, piena di contraddizioni e debolezze, spesso bugiarda a fin di bene e pure a fine di paraculaggine, ma libera di un libero che avrei voluto io averne anche solo l'infinitesima parte, quella più piccola, una stilla della libertà della Gilda per conquistare il mondo.
Gilda era libera dentro, quello le leggevi negli occhi, occhi colore di libertà, ecco qual era il colore che prima non ricordavo. 
Libera dentro pur essendo imbrigliata fuori, imbrigliata da mille doveri, doveri di donna, di madre, di vita, di lavoro, di perché, di musica, di corsa, di fatica, di gioia. Libera ed innamorata di ciò che apparentemente non aveva ma che in realtà possedeva come nessun'altra mai avrebbe potuto.
Libera e indipendente.
Libera e spavalda, alle volte perfino strafottente, di un'arroganza formalmente gentile ma tagliente, libera e risolutrice, libera e capace di dare (a chi voleva) un'intensità che Ampére secondo me pensava a lei quando studiava l'elettrodinamica. 

Venanzio incontrò Gilda un giorno per caso, sì insomma un caso non troppo fortuito e forse spintaneo, ma la incontrò, adesso non stiamo qui a raccontare i dettagli che poi non c'è spazio e questa storiella devo farla finire prima delle sette ché l'ho iniziata che non avevo niente da fare ma poi devo andare a cena con Tommaso, la incontrò per strada, una strada sociale, un po' on-line e un po' faccia, e si diedero appuntamento lì su un'altra strada, anzi in un parcheggio, anzi in un posto trafficato vicino ad un parcheggio che stava vicino ad una strada che vendeva insalata fresca (il posto non la strada), insalata fresca e pollo a pezzetti per arricchire l'insalata e acqua naturale per saziare la sete, si incontrarono in fretta che il tempo era poco, come sempre sarebbe stato poco tra lei e Venanzio, spesso niente in realtà, e lui rapito (sarebbe meglio dire rincoglionito) da tutto quel bello che i dettagli li ho già raccontati, la baciò. 
Così, con la lingua, a tradimento, un tipico bacio di Venanzio che bacia Gilda per la prima volta, variante goffa del bacio alla francese (sti francesi che ritornano in questo racconto sarebbe da indagare il perchè), un bacio con la lingua ma poca, quasi a dire "sì ti bacio ma non è una cosa seria", giusto la punta.
Gilda lo guardò, "ohi, mi hai baciata" (disse proprio ohi, diceva sempre ohi la Gilda), "eh già" disse lui, con lo sguardo contrito ma non troppo.
Non avrebbe dovuto farlo, perché il bello così bello che vaccaboia com'è bello non si bacia, perché poi non te lo dimentichi più, ma proprio più, e dopo diventi misofobico o miso-rompi-palle-gico come ho meglio precisato, e anche orso (questo lo aggiungo ché a sto punto della frase ci sta bene) perché baciare la Gilda è baciare la libertà, e come cazzo fai a dimenticarti di quanto è bello baciare la libertà?? Non lo fai, semplicemente non lo dimentichi.

La libertà affascina, innamora, travolge, sconvolge, toglie il sonno, cambia le persone che non l'hanno mai davvero avuta, la libertà quella vera, quella intellettuale, quella sentimentale, quella emozionale, quella motivazionale, quella innata, sognata, difesa, custodita, racchiusa in quello sguardo incredibilmente stronzo quanto dolce, rapisce chi ha la fortuna più sfortunata che si possa immaginare e che si può riassumere in dieci parole, una virgola ed un punto: "un giorno l'ha incontrata, anche se solo per finta."

Dopo quel bacio si videro ancora il Venanzio e la Gilda, ancora per un po', ogni tanto, per qualche tempo, quando si poteva e quando non c'era niente di meglio di fare, senza impegno, spesso di nascosto dagli altri e qualche volta anche da se stessi, mai insieme e sempre per caso, in attesa di qualcosa di nuovo, senza mai correre il rischio di viversi davvero, in attesa della vita quella vera, in attesa del ritorno, della ripartenza, dell'ancora, del mai. 
Si videro sì, ancora per un po', con lei ad esaltare le impossibili diversità e lui quasi a convincersi che fosse così. 
Entrambi a raccontarsi le loro storie, lei omettendo e lui strabordando, lei divagando e lui straparlando allo scopo di raccontarle davvero chi era senza mai riuscirci fino in fondo, lei vivendo anche a lato e lui cercando di risolvere non si capisce bene cosa (tra l'altro senza riuscirci), lei mentendo, lui fingendo di non sapere.
Venanzio era lì, e Gilda era là, lei così incontenibile e lui così salvatore, lei così annoiata e lui così abitudinario (diceva lei), lei così bella e lui così assurdo. 
Due opposti che non si attraggono se non per qualche imperscrutabile e occasionale ragione, che poi non è ragione ma solamente "boh?".

Ecco è così che è andata l'inutile storia del Venanzio e della Gilda, l'ho inventata oggi pomeriggio al bar del porto" di fianco ad un battello che si chiama "Amarcord (Gilda), ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone davvero esistite è uno scherzo del destino, e mi scuso per questo con tutti i Venanzio e anche con tutte le Gilde, con i Giorgio un po' meno che in fondo sono solo stati sfiorati dai fatti, se qualcuno si riconosce in queste pagine si sbaglia, perché questa storia non è mai esistita, lo giuro io che lo so, non è mai esistita davvero, è solo frutto della mia (malata) fantasia....
Ci tenevo a precisarlo.

P.S.: ci tengo a ringraziare anche il parcheggio che ha fatto da location al primo bacio tra Venanzio e Gilda, l’ho rivisto settimana scorsa, è ancora lì nonostante il PNNR.





 

Alle soglie dei cinquantuno

Oh!! Ad un tratto ti accorgi che arrivano i cinquantuno, proprio così, i cinquantuno all’improvviso eh!

E “Oh” con due punti esclamativi ad inizio frase l’ho proprio messo apposta, anche se fa brutto lo so, ma volevo che si capisse chiaramente che il mio è uno stupore un po’ incazzato, mica pippe!

Quindi dicevo sei lì, un giorno, ti senti bene, anzi ti senti pure in forma diciamolo, hai perso un po’ di pancetta, qualche volta corri, ti abbandoni a quel tanto di sport come non avevi fatto mai nemmeno da ragazzino; la prostata - al netto di infiammazioni occasionali da candidosi trascurata o qualche bicchiere di sangiovese in eccesso - è normodimensionata; si va bene ok, qualche ruga si affaccia sul contorno occhi, ma tu non ci fai caso perché ti hanno detto che in fondo in fondo nell’uomo “la ruga da sorriso” fa fascino; la barba si imbianca, ma poi tu ti abbronzi e si sa ancora una volta che  il contrasto fa fascino, tutto a posto perciò, finché non capita che una mattina svegliandoti non ricordi più dove hai parcheggiato l’auto la sera prima, ci pensi eh, ma niente, sei costretto a chiederlo a Siri. Anche in questo caso hai la risposta, cerchi di spiegare a te e agli altri che pure quello fa fascino, sai usare la tecnologia come i millennial,  ma i primi dubbi ti assalgono, tutto sto fascino pare ti stia sfuggendo un ciccinino dalle mani, ma ancora fai finta di nulla e vai avanti, imperterrito, come nulla fosse, convinto vero: i cinquanta sono i nuovi trenta.

I nuovi trenta… no, no, non sei convinto… e come potrebbe essere altrimenti per te che abbini i Persol da sole gialli  modello Steve McQueen alle Tiger sempre gialle modello Uma Thurman, una roba vintage che un trentenne vero manco per niente farebbe una cosa del genere.

I nuovi trenta, ma allora perché ti chiamano sempre più spesso signore? A trenta non ti chiamavano signore.

Ne hai cinquantuno, già già, cinquantuno tuttattaccato, fisicamente ne senti venti, mentalmente quindici, sentimentalmente settantasei, professionalmente cinquantasei chè uno scivolo di cinque anni prima o poi arriva… ma in realtà ne hai cinquantuno.

Quando ventenne inseguivi i sogni e la vita in mezzo a pizze e cotillon ti immaginavi diverso a questa soglia, ti facevi accasato, sposato, ricco, brizzolato con le scarpe nere di pelle lucida, due figli, forse tre, la cravatta pure sul pigiama, felice dopo tutta quella fatica, le cene con gli amici, con le famiglie degli amici e poi con le famiglie dei compagni di classe delle amiche di tua figlia, e come dimenticare  le vacanze all’estero (“ah va che ci vado, mica come oggi porca la vacca boia”), la Tari che sarebbe  aumentata ogni anno e sarebbe servito per lamentarti di cose da grandi, la routine, Sky on demand, il fascicolo sanitario e anche Spid (tu a vent’anni vedevi già oltre!!), invece oggi ti guardi indietro e ti accorgi che avanza solo la Tari, manco il pigiama per la cravatta  ché quello non lo porti proprio.

I cinquant’anni, o cinquantuno che sono poi la stessa cosa, mettono a nudo le incoerenze della vita, le debolezze e gli eccessi di carattere, quelli che si sono sedimentati in mezzo secolo di “ho ancora tutto il tempo che voglio” e poi ad un tratto “cazzarola è già finito e non ho combinato nulla”.

Repentini cambi di fronte e di prospettiva.

Ma in mezzo  “è” o “non è” successo qualcosa?! 

Qualcosa da raccontare intendo. Qualcosa che valga la pena.

Mah… … qualcosa sì… solo che c’è un problema (e se fosse solo uno sarebbe un successo!!), hai una visione distorta del tempo e dei suoi fatti, distorta dalla prospettiva da cui guardi, anzi dalle prospettive, un pezzo lo vedi con gli occhi della nostalgia, spesso nostalgia pure di quello che non hai vissuto mentre avresti voluto e dovuto, ed un pezzo lo osservi con gli occhi della razionalità, quella razionalità che ti aiuta a spazzolare via le illusioni dagli angoli reconditi in cui si sono nascoste, la stessa razionalità che cerca giustamente di ridimensionare quegli inutili lampi di felicità che ti hanno cinicamente attraversato a pezzi, solo per farsi subdolamente ricordare ogni sera prima di addormentarti, ed ogni mattino al risveglio, e spesso anche nel tratto di autostrada Bologna-Modena che essendoci traffico perenne hai tempo per pensare ai fatti tuoi e non solo al livello ormai insostenibile dei tassi di interesse nell’area Euro.

Cinquantuno, un salto ultrarapido dal cinquantino all’auto nera con 194.567km d’ordinanza fatti tutti in tre anni, diesel “euro inquino quanto cazzo mi pare”; un salto metafisico tra il verosimile e la realtà, tipico degli svuotati e dei teorici dell’avrei dovuto fare diversamente.

Ai cinquantuno così ti prepari ad arrivarci e restarci da solo, fedele alla regola del piuttosto che niente è meglio niente, senza festeggiamenti ché non c’è proprio niente di cui rallegrarsi, al posto della torta una piadina fichi caramellati-crudo e squacquerone ed un calice di rosso per il brindisi con Chicca, la cameriera della Lella (che c’ha la faccia gentile e se glielo chiedi un brindisi te lo concede secondo me!), la cintura di ElCharro e Maledetta Primavera in sottofondo che il Dj almeno una volta a serata la spara.

I nuovi trenta? Mah, diciamo che ho ancora qualche settimana per pensarci, per ora posso dire che a trenta quindici minuti in sauna non riuscivo a resistere, oggi si, non so se è colpa del testosterone che scalda meno dall’interno o del cambiamento climatico.






La storia di un ragazzo e una ragazza, una sedia a dondolo ed una bottiglia di "Punt e Mes" che incontrano un insonne cronico innamorato dell'unicità in una serata uggiosa di fine febbraio

Punt e Mes, un punto di dolce e mezzo di amaro Carpano, questa la definizione precisa coniata per questo vermuth d'antan, vintage come i colori della bottiglia, rosso antico su sfondo bianco, vetro verde classico, il tappo in alluminio vermiglio o rosso acceso scarlatto per i profani. 

L'aperitivo degli insonni aveva detto qualcuno.

L'insonnia sì, ecco qual era  il problema, oddio problema, considerato che la cosa andava avanti da mesi, diciamo in maniera più o meno controllata, più che un problema si potrebbe dire fosse la situazione standard, la situa come la definirebbe un boomer che si atteggia a millenials. 

Luì soffriva d'insonnia.

Perchè? Mah le ragioni credo possano essere disparate, o disperate se volete, la più plausibile è una confusione dei ritmi circadiani del sonno, dal latino circa diem, che poi vuol dire "intorno al giorno" (lo dice Wikipedia mica io quindi deve essere vero), ma la cosa potrebbe essere conseguenza, anzi certamente lo è, della vita intasata che stava conducendo da tempo, o sregolata se vi piace di più, sregolata e abitudinaria, abitudinaria e sregolata, tutto contemporaneamente.

Questa apparente contraddizione, la sregolatezza dell'abitudine intendo, abbiamo quindi convenuto è la prima causa dell'insonnia di Luì, e a ciò si deve poi aggiungere la produzione incontrollata di pensieri confusi, un vero e proprio affastellamento di sinapsi, una roba che partendo da una frase ascoltata per caso in mezzo a un profluvio di coincidenze deraglia in zero due in un castello di supposizioni, spesso infondate, ma a volte - parecchie volte - prodromiche alla verità, e comunque materia d'incontrollabile analisi notturna.

Quella sera non fece eccezione. Paolo Fox lo aveva avvisato, "c'hai la luna contro", proprio così aveva detto l'astrologo paraculo, "c'hai la luna contro, cerchi la polemica, con tutti, anche con te stesso, non stare lì a rimuginare che fai solo casino, lascia stare, verranno tempi migliori, lo so che lo sai che ti hanno raccontato un sacco di cazzate e tu hai fatto finta di credere a tutto, ma porta pazienza, vedrai ad aprile 2039, dai, non avere fretta", ma Luì che del Paolo nazionale era un fans sfegatato nonostante avesse cercato in diverse occasioni di cacciarlo sotto con la macchina, la pazienza l'aveva finita. E sì il 2039 non era poi così lontano, bisogna dirselo, ma visto che attendeva una svolta dal 1988, perché si ricordava perfettamente quel 31 dicembre da Magalli in cui il maledetto aveva posizionato l'Ariete al 2° posto assoluto della classifica dei segni più fortunati del mondo, questo nuovo rimando non fece altro che aumentare la sua ritrosia al sonno.

Agata non c'era, era partita per le Maldive insieme a Giulia, la sua migliore amica, un viaggio premio di ventotto giorni gli aveva detto, "premio per chi?" aveva pensato lui senza dirglielo, e questo comunque significava che non avrebbe potuto chiamarla per sfracellarle i coglioni, non poteva rovinarle la vacanza, già la tediava senza sosta quando stava in Italia, un superpippone internazionale proprio non poteva farglielo, anche perchè Agata non avrebbe mai risposto al telefono, aveva messo le mani avanti prima di partire: "Non provare a chiamarmi, io te l'avevo detto che stavi facendo l'ennesima cazzata, ora ti arrangi".

Agata aveva il dono della sintesi al contrario di Luì, poche parole, concetti chiari e chiave e chi vuol capire capisce. Luì nove volte su dieci non capiva, anzi Luì nove volte su dieci fingeva di non capire. 

Pioveva, una di quelle pioggerelline noiose che fanno tanto ottobre inoltrato anche se in realtà non era terminato nemmeno febbraio, pioveva e tirava vento, di fronte al Duomo una coppia di ragazzi portava a spasso una sedia a dondolo (giuro, proprio così portavano a spasso una sedia a dondolo, avete letto bene), lui serissimo, leì bella, molto bella, sorridente, i capelli lunghi e biondi e con una berretta finto kashmire grigio topo, incontrandolo lo guardarono in modo strano, quasi sorpresi e straniti di vederlo lì, sorpresi loro capito? Come se passeggiare alle 23.45 di un lunedì qualsiasi con una sedia a dondolo marrone sotto braccio, dopo essersi fotografati fronte edicola, fosse una roba da tutti i giorni. Il selfie col dondolo, robe da matti!

Pioveva e Luì passeggiava, la sedia ormai lontana insieme ai suoi portantini lasciò spazio a quel silenzio umido. Silenzio fuori, silenzio dentro, silenzio tutt'attorno, inquietante per molti, as usually per Luì, il silenzio della sera si dimostrò ancora una volta il più fidato dei compagni (cavoli questa nemmeno Pascoli l'avrebbe scritta meglio!). 

Molti anni prima una donna di nessuna importanza ma con cui avrebbe avuto a che fare giocoforza per tanto tempo ancora, gli disse: "Ho vissuto molto, forse pure troppo, ho ballato scalza, ho bevuto vodka e respirato eccessi, ora voglio solo normalità". Mentiva, aveva vissuto molto sì ma non cercava la normalità, cercava solo la comodità, Luì invece no, della comodità se ne era sempre strafottuto le balle, Luì cercava solo un'emozionata ed emozionante unicità. Cercava unicità e aveva trovato il silenzio, il silenzio e l'insonnia.. probabilmente più di qualcosa era andato storto.

Il rischio vero per le persone come Luì è di abituarcisi a quel silenzio, è di abituarcisi a quell'insonnia, è di abituarcisi a quell'assenza di unicità pur continuando a cercarla come un matto e sempre nella stessa direzione. Il rischio vero per le persone come Luì è di non avere più voglia di correre il rischio di regalare pezzetti di sé a chi non vuole scoprire l'insieme e te lo dice quando è troppo tardi.

Insieme, è una parola bellissima, alle elementari la odiavo con tutti quei finito-infinito-vuoto-disgiunto, poi crescendo, ma crescendo parecchio, ho iniziato ad apprezzarne la potenza, se oggi dovessi dare una definizione di insieme direi: "un insieme è un raggruppamento di quattro piedi che si avvicinano sfiorandosi sotto una coperta calda tendente all'infinito".

La domanda vera a questo punto però è un'altra: "ma la sedia a dondolo, quei due, dove l'avranno portata?"


Batman


C’era una volta un ragazzotto che si era convinto di essere un supereroe. 

Passò i giorni a risolvere problemi più grandi di lui, certo di poter e dover salvare il mondo che gli girava attorno imparò ahilui a non aver paura di nulla, concentrato e perseverante macinò soluzioni progettando la vita anziché crescere serenamente come si confà a quell’età, capace solo di rimandare il piacere a momenti migliori che non arrivarono mai, credette - illudendosi - di essere financo in grado di rallentare il tempo tanto da poterlo fermare.

Si convinse, il tapino, di essere totalmente autosufficiente, infallibile, onnisciente e predestinato a grandi cose. 

Un pataca insomma, nel senso deteriore del termine.

Collezionò emozioni vissute costantemente a metà, inseguì desideri diventando grande due passi per volta, bruciò le tappe camminando sulle braci di fuochi tanto intensi quanto inutili. Si lasciò travolgere dall’impossibile credendo di poterlo governare,  sopravvalutò le proprie capacità in afflati di spasmodica vanità, si convinse di essere Batman.

O tutto o niente, o quello o niente, il massimo o niente, o vittoria o niente, o brivido o niente, vinse il niente.

Si accorse di aver perso, se ne accorse un giorno per caso, quando rincasando dopo l’ennesimo slalom tra i gorghi del quotidiano in cui si era cacciato, richiuse la porta dietro di se ed ascoltò il silenzio. 

Viveva a metà in una casa costruita a sua immagine e somiglianza, tra cumuli di ordinata, presuntuosa e pomposa vetustà, immerso in un mondo di antichi suppellettili solo apparentemente gettati a caso sul pavimento o aggrappati alle pareti, ricordi di un passato che non passava, di una vita mai davvero  vissuta, il tutto avvolto in un assordante silenzio che aveva gradualmente inghiottito la voglia di avere voglia.

Fu allora che si accorse di non avere più niente da dare, più niente da offrire e nemmeno più niente da prendere, a nessuno e da nessuno, un supereroe senza più super e senza più  eroe. Un noioso, banale e scontato cliché, vittima di un ego apparentemente gentile e smisurato, in realtà fragile, costretto  ed ostinato al limite del comprensibile.

C’era una volta un ragazzotto che credeva di essere Batman, che nascosto dietro ad una stoica e buffa maschera da pipistrello ( 🦇 ) lasciò il posto all’ultimo dei Robin di turno, senza più sogni né velleità, senza più sorriso né mantello.