L’Indifferenza

Qualcosa di simile gli era già successo, o almeno all’inizio ne era convinto, e decise quindi di reagire allo stesso modo, avrebbe riempito lo spazio e il tempo di futili orpelli, con tutto il rispetto per gli orpelli sia chiaro.

Ma niente, stavolta proprio non funzionava. Non riusciva a staccare la testa nemmeno per un attimo (la testa🤔). 

Provò con Gloria, alta, sinuosa, moderatamente simpatica, quell’atteggiamento zen tra il distaccato ed il “ho vissuto troppo intensamente ora devo riflettere”, carnagione chiara e occhiale da sole scuro. Nulla, dopo il secondo aperitivo sciorinò il più classico dei “dai, sono stato bene, ti chiamo io, ok?”. Sono passate sei settimane, Gloria nel frattempo si è sposta con Giorgio, conosciuto due giorni dopo l’ultima uscita, lui ancora deve chiamarla. Ad un amico di lungo corso ha dichiarato di non averlo fatto per via di un problema di connessione alla rete TreWind, l’amico ha sollevato dubbi apparentemente fondati.

Poi fu la volta di Alessandra, capello corto, culo rotondo, accento leggermente sbavato verso sud, sorrideva sempre, la invitò convinto, “questa volta ci riesco” pensò, a metà della cena finse una colica renale, “scusami ma dobbiamo rientrare, non mi sento niente bene, perdonami, ti richiamo presto”. Si accorse tre settimane dopo di aver perso il numero, lei nel frattempo lo aveva bloccato su ogni possibile sistema di messaggistica social, credo fosse risentita per via di un diverso concetto di “presto”.

Con Gioia fu diverso, ci mise tutto l’impegno necessario, almeno in partenza,  prenotò, si profumò, fece il bidet, aprì l’auto per farla salire, si finse interessato alle teorie complottiste e ai fenomeni delle scie chimiche, ripensò a quello che gli aveva detto il Capitano due sere prima (“non fare il busone” - nda), poi si accorse di non ascoltarla mentre parlava, quando lei ad un tratto spazientita lo apostrofò: “allora, mi rispondi?”. Lui non aveva idea né di cosa gli avesse chiesto né perché gli stesse facendo così tante domande. Fini che non fece nemmeno in tempo a “ti chiamo io”, che lei aveva già sbattuto lo sportello, il portone d’ingresso, ed una volta dentro casa ed aperta la finestra della sala da pranzo rivolta verso la strada urlò: “Gioia, mi chiamo Gioia brutto stronzo, non Agata”. 

Poi si aggiungano le innumerevoli prese di distanza (le chiamo così ché sfanculamenti fa troppo trash), di tutte quelle con un QI superiore alla media che capita la situazione fuggivano prima ancora di iniziare. Una di queste, si narra, abbandonò l’aperitivo per quella che doveva essere una capatina in bagno, non fece più ritorno, fu vista passeggiare mano nella mano con il primo che passava di lì, fuori dal bagno, fuori dal locale, in un’altra città. Alle amiche più care disse: “va bene tutto, ma così proprio no”. 

Effettivamente il dubbio che non fosse proprio come le altre volte iniziò ad insinuarsi in lui in maniera sempre più prepotente.

Ripercorse mentalmente la strategia che adottò in quei dei quaranta, ripensò a Dorotea, che dalle due alle tre di notte dei giorni pari lo accoglieva con grande piacere; si ricordò di Claudia che odiava i posti troppo rumorosi e voleva sempre stare a casa; poi Titti, romantica e paziente, probabilmente pure troppo; e ripensò perfino a Giuseppina, guasta come lui, alla ricerca di distrazioni come lui, persa come lui tanto che nessuno dei due ricorda esattamente - a distanza di dieci anni - chi doveva chiamare per ultimo.

Non trovò la risposta, la risposta  al dubbio che sta al centro di tutto il racconto intendo, quel “ripercorso” gli lasciò anzi un abbondante amaro in bocca, si sentì un po’ patetico, quasi ridicolo, si guardò perfino intorno per il timore che qualcuno si fosse accorto del suo disagio.

Sapeva da sempre che ciascuno di noi è spesso il “piuttosto che niente” di qualcun altro, lo era stato, lo erano state per lui, lo era ristato, ohhh se lo era ristato, ma non era nemmeno quello a creare la difficoltà, era piuttosto il senso di “vuoto” mai provato che quella situazione gli provocava, una roba tipo il riso con la scatola che si rompe nel carrello della spesa un lunedì pomeriggio alle Cicogne.

“Vuoto” figlio del più potente  tra i sentimenti, l’imperatore dei sentimenti, il Papa, il generale, il Sommo, il super comandante, insomma quello: l’indifferenza.

L’indifferenza ha due facce, esiste quella finta-ostentata-artefatta-strategica, tipo quella di Fanny Chenal nei confronti di Max Skinner fino ad inizio del secondo tempo, e l’indifferenza punto.

L’indifferenza punto è ciò che di più vero e sincero una persona possa provare, semplicemente la si vive (o la sí subisce dipende dal lato in cui ci si trova), ci si dimentica di ciò che non è mai davvero stato, si cancellano le finzioni costruite-artefatte, ci si libera delle scorie, degli incidenti di percorso, dei traghettamenti e dei traghetti. L’indifferenza punto è endemica, salvifica, inevitabile. L’indifferente punto vince sempre e vince soprattutto le gare che manco sa di competere. L’indifferente punto non vede l’ora di diventarlo.

È questo “il davvero diverso” rispetto alle altre volte, il vuoto dell’indifferenza punto, l’indifferenza che può “provare” solo chi ad un tratto, tra sera e mattino, senza volontà sia chiaro, si accorge che nulla di quanto credeva (o probabilmente immaginava solo di credere) è mai esistito, e può “subire” solo chi invece ha davvero troppa fantasia semplicemente “per essere” reale nella vita di un’altra.




5 commenti:

  1. Fantastico! L’indifferente punto è il mio preferito.
    Punto!

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  2. Sarebbe bene non incontrarlo mai peró!
    S.

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  3. Ho voglia di una storia a lieto fine...me la puoi scrivere tu?

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    1. 😂😂😂 è il maestro delle fantasie a lieto fine, soddisferà il tuo desiderio al di sopra di ogni aspettativa. È la realtà che gli viene male. Peccato che censurerà la franchezza del commento
      Firmato un’Agata come tante

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    2. Non ho mai censurato nulla figurati se comincio ora.
      S.

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