Le scale del Primo Piano, il Panamá, le pizze…


Oh ve lo dico…  e ve lo dico nella consapevolezza che chi non ha vissuto quegli anni non potrà capire fino in fondo…. e sì lo so che dicono tutti così, quelli dei ruggenti anni cinquanta, poi quelli dei fantastici sessanta, e pure dei difficili ma incredibili settanta, per non citare poi gli spavaldi ottanta (e mi ci metto pure io), e tutti ma proprio tutti, senza rendersene conto, a magnificare e idealizzare solo la propria giovinezza e quello che ha rappresentato nelle loro vite: il futuro, i sogni, il domani che si costruiva pezzo dopo pezzo, le sconfitte, i pianti, le risalite, i sorrisi, le fughe in camporella, la voglia di fare, la rabbia, le interrogazioni e poi gli esami di matematica-fisica e diritto, la fatica, la scuola, la necessità di andare, di andare fuori di casa, fuori di testa, fuori dalle regole, il lavoro, la famiglia, gli Amici.
E gli amori? Quelli veri, quelli finti, quelli di plastica, quelli indimenticabili,  quelli che sembravano non dover finire mai, quelli che ritornavano, quelli che sarebbero finiti dopo mezz’ora, forse anche quindici minuti, quelli da “una botta e via”, quelli da “via senza manco una botta”, quelli di una vita, insomma tutto l’armamentario tipico di chi diciotto-diciannove-venticinque-trentadue anni e passava di lì.

Ma fra tutto questo caos che ha la pretesa (fasulla) dell’unicità,  c’è qualcosa che solo una, massimo due generazioni hanno vissuto, almeno qui in Romagna, almeno qui a Faenza e dintorni, un locale che faceva da sfondo a ciò che succedeva e che era più di un locale o forse anche meno, una roba che dire bella è un azzardo stilistico, che dire fascinoso è fantasia, che dire di tendenza è minimizzare, una roba che si può descrivere solo in tre parole: una scala (mobile), un piano (il primo), la gente (tutta).
Tre parole e un posto brutto, un centro commerciale che manco a Timisoara, un disco-pizzeria-pub-risto music, post pre e durante dinner, cresciuto in maniera irregolare in mezzo ad una ferramenta, un forno, una pescheria, la Coop, gli zingari, un negozio di elettrodomestici che da grande sarebbe diventato una blasonata catena nazionale.

Sono andato questa sera, un po’ per caso un po’ perché c’avevo voglia, a distanza di trentatré anni dalla prima volta in cui ci misi piede, in quel due di ottobre di un 1992 banale per tutti ma fantastico e terribile per me, finiva uno dei periodi più belli, brutti e difficili della mia vita, iniziava uno dei periodi più belli, brutti e difficili della mia vita.

Anche questa sera ho lasciato che a portarmi sul quel terrazzo interno, quasi un soppalco apparecchiato, fosse ancora una volta la scala mobile, che ora come allora è partita solo al passaggio dinnanzi alle fotocellule.
Man a mano che procedevo il vuoto ha iniziato a riempirsi, man a mano che salivo la scala ha iniziato a rallentare, oh non si passava, cataste di ragazzi e ragazze si affastellavano a famiglie in fuga, i ferormoni hanno iniziato ad invadere l’ambiente.
La cameriera mi è venuta incontro: “Buonasera!”. 
Non ho risposto, lo sguardo perso a guardare una vita prima, lei invece ancorata al presente mi chiede: “ti siedi qui?”, non ho risposto nuovamente, “scusa, ti siedi qui?!”, “qui lì? Ok va bene”. 
Una musica che sentivo solo io, silenziosa, ha iniziato a invadere lo spazio, il tempo, il bar all’ingresso che non c’è più, il bar in fondo alla sala chiusa; ad un tratto sono apparsi lo Squizzone del lunedì, le cinquecentocinquanta pizze bruciate, Lorenzo, Roberto, Tommaso che si affacciavano al bancone per salutarmi, la schiacciatina macchiata di pomodoro, la Sangria, il Coca Rhum, Omero, Annamaria, la Caipiroska, Bicio, le pizze da asporto, lo Speciale Mascarpone-Torta di Carote-Cioccolato Fuso, Marzio..
Poi quella gnocca, quella carina, quella timida, quella simpatica, quella che se la tirava, quella che la conoscevamo tutti, quella che li conosceva tutti, hanno iniziato a passare di lì ancora una volta.
E io ora come allora guardavo e non avevo il coraggio di dire nulla, un po’ invisibile un po’ scontato.
Ho visto anche Matteo e i suoi jeans intercambiabili, Sergio sordomuto che “Berlusconi vaffancccullo” con tre c e due l.
Ho fatto due passi fino al bagno, quello con la porta rotta, il lavello semidistrutto e la fila perenne.
Poi Susanna, Ombretta, Davide, Zimbo, Cleto, la Patty, Walter, Laura, Marika, Sandra, Silvano. 
Si anche lui, lui più di tutti gli altri, con il cellulare blu elettrico della Swatch e la Mercedes classe SL, che pesava più il cellulare della Mercedes.

Pochi posti hanno lasciato il segno come questo, pochi posti hanno disegnato un’epoca come questo, pochi posti come questo  sono leggenda per chi “facciamo un salto al Panamà e poi via agli Hippo” e io a fare le pizze.

È buffo come alcuni ricordi sedimentino nella nostra mente, pronti a riaffiorare nei momenti più impensati, con quel sapore di nostalgia mista ad una pretesa (caduca) di immortalità.
Su quella scala sono nate coppie, sono scoppiate amicizie, sono tramontati progetti, sono cresciute fantasie, si sono addormentati i sensi dopo la terza boccia di prosecco, si sono sfilate calze velate.
E di fronte al forno delle pizze passeggiava “avanti e indietro”, senza che io potessi nemmeno immaginarlo allora, chi un giorno avrei incontrato al solo scopo di lasciarmi irrimediabilmente travolgere..

Chi non si ricorda la serranda di Amorino che puntuale come la morte alle 00.30 scendeva in automatico fracassando al suolo dopo aver travolto sgabelli e avventori ubriachi?
E la musica dal vivo? E lui appoggiato a lei che si strusciava come un babbuino con una paresi agli arti inferiori? E la scala di servizio che ti portava sul retro? E il parcheggio che ospitava auto appannate e le sue improbabili liasion interne? Credo siano stati concepiti almeno trentadue bambini dalle 3 alle 4 di notte in quei dieci anni malcontati.

Il tempo è passato, ma non sono passati i ricordi, che continuano a vivere un po’ dentro noi ed un po’ tra quelle quattro mura sgarrupate, ricordi stampati su una t-Shiet grigia, su di un cappellino blu con l’ala tesa, blu come le felpe e blu come il cappuccio delle felpe.

“Mi fai una schiacciata a spicchi?”
“Tu mi porti un calice di rosso?”
“Va bene, ma tu fai presto”
“Va bene, ma tu ricordati di non dimenticare…. mai”














3 commenti:

  1. Era bello essere giovani, uscire e trovarsi in mezzo a tanti coetanei, ricordo la musica, il casino, la mia timidezza che saltava fuori ogni volta che mi sentivo esposta e vulnerabile…poi ricordo che facevo sempre in modo di passare davanti al forno della pizza…c’era un ragazzo, occhi scuri e seri; mi piaceva, fortunatamente sapevo di essere trasparente per lui e quindi lo osservavo indisturbata.
    Nemmeno le mie amiche sapevano, era il mio piccolo segreto, non ho mai fatto nulla, mai tentato un approccio, anzi, non mi è mai venuto in mente di farlo…io passavo e lo guardavo, tutto qui.
    Lui sempre con lo sguardo basso, ad infornare pizze e a lavorare, mentre tanti della sua età a divertirsi .
    Ecco, quando ripenso al Primo Piano, al Panamà , alla fine degli anni 90, mi torna in mente quel ragazzo dallo sguardo serio e gli occhi scuri.

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  2. Anonima commentatrice, posso dirti due cose:
    1) hai fatto bene a non fermarti, quel tipo lo conosco, è una tragedia da evitare come la peste
    2) hai fatto male a non fermarti, perché meglio fare e poi pentirsi che non fare e pentirsi ugualmente

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  3. Sono solo un ex ragazza romantica pure un po’ fatalista, convinta che se una cosa/persona è destinata a te, troverà sicuramente il modo di arrivare….non mi sono fermata e nn gli ho mai rivolto la parola questo è vero, sono però sicura che avesse capito perfettamente che c’era dell’interesse da parte mia…chiamalo se vuoi sesto senso
    Lui non si è mai avvicinato, ma un paio di volte ha piantato i suoi occhi scuri nei miei…
    Quindi
    Fine di una perfetta storia romantica mai cominciata ….e mai finita

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