Jhonny Borsari

Il pizzaiolo in fondo lo aveva fatto per tanto tempo, e gli riusciva pure bene, camionista doppio impasto era la pizza che odiava di più, sostanzialmente una svuota linea, wusterl-salame piccante-salsiccia-funghi-prosciutto cotto-patatine-bufala-uova alla Bismarck, na roba che con una sola ci sfamavi mezza armata Napoleonica nella marcia verso la Russia.

Voleva assolutamente cambiare vita, prima aveva provato con i cacciatori di teste, poi con i contatti diretti, poi con i clienti, poi con i maghi, poi aveva chiesto a quello stronzo di Paolo Fox che con tutte le promesse non mantenute gli doveva almeno un favore, ma niente, non succedeva nulla, immobilismo su tutti i fronti.

E se c’era una roba che proprio non sopportava era che le cose non succedessero. E invece quello era il mood del periodo e quel periodo stava durando davvero da troppo tempo. 

Piuttosto che l’attesa preferiva i problemi, almeno quelli poteva risolverli, era l’unica cosa che gli riuscisse davvero: risolvere problemi.

Era più bravo con quelli altrui, a trovare le soluzioni per altri era un vero asso, per i suoi diciamo che c’erano ampi spazi di miglioramento. Non perché non ne avesse le capacità, ma perché quando si trattava di sé stesso si ostinava ad inseguire solo gli obiettivi, i sentimenti, la giustizia, le sensazioni, che gli davano il senso del risolto. Il resto lo schifava, e lui che risolto non lo sarebbe stato più, restava continuamente appeso al suo niente.

Una volta litigò pure con un suo professore del terzo anno a questo proposito, “se il mancato raggiungimento di un obiettivo vi provoca frustrazione, sia esso la ricerca del successo, di un amore, di un lavoro, o di quello che vi pare, la soluzione è solo una: cambiare obiettivo”, sosteneva il docente. “Sti cazzi, bella paraculata” obiettò Jhonny. Non fu proprio azzeccata come replica, il prof non la prese benissimo diciamo, ma Jhonny era (ed è) un idealista, non sapeva tacersi e finì che fu 18, 18 con predica, “Vede sig. Borsari (Jhonny Borsari era il nome completo - nda) il suo obiettivo era 28, il modo per arrivarci non era quello da lei scelto, tanto che lei ha fatto del percorso il vero punto di arrivo, il risultato è stato 18. E lei ora è frustrato, mentre sarebbe stato sufficiente cambiare strada o accontentarsi di un 18 fin da subito e sarebbe stata felicità”.

“Sti cazzi”

“Vada via, e non si faccia più vedere”

Pomodorini confit, bufala e grana a scaglie era invece la sua pizza preferita, ben cotta e impasto integrale. Questa si che era pizza, e questo sarebbe stato il suo cavallo di battaglia, la chicca da inserire nel su CV da pizzaiolo. Chissà se esistono  procuratori per pizzaioli? Poteva affidarsi ad uno di questi per massimizzare l’ingaggio, stagione estiva, stagione invernale, pizza mercato d’agosto e cartellino stellare. Ne era certo.

Un giorno una “tipa” gli disse: “sei una delle persone più intelligenti che conosca, non fare cazzate”. Il complimento era funzionale a toglierselo dai coglioni, sul rischio di fare cazzate invece aveva ragione. Pensava a questo quando fece entrare in casa l’agente immobiliare con il primo potenziale acquirente, era basso, con i baffi, rubicondo, si guardava attorno e sospirava.

Jhonny pensava “Che cosa sospiri cosa coglione, a te non te la vendo nemmeno se me la paghi il doppio, sti spazi serve capirli, e te con le tue mani grasse e la faccia da opossum, e quel sedere grasso sul mio divano non ti ci siedi”.

L’obbligo di acquistare il divano e non dismetterlo per almeno cinque anni lo aveva voluto inserire nella lettera di incarico all’agenzia, “questo è obbligatorio, o non vendo, lui (il divano - nda) da qui non se ne va, io non lo voglio più ma lui ha diritto al suo spazio, lì sul parquet all’ingresso, di fronte alla cucina”. Gina, l’agente immobiliare, sulle prime rimase perplessa per quella richiesta poi conoscendo meglio Jhonny capì il senso di quella sua pretesa e del perché ci tenesse così tanto a sta cosa. Accettò di inserire la clausola.

All’opossum l’appartamento piaceva, voleva però stravolgerlo, lo disse subito, in bagno, anzi mentre camminava rumorosamente sul parquet del bagno che stava schifando con quell’espressione inutile, Jhonny lo guardò dritto negli occhi e disse: “tu stravolgi sti cazzi. Arrivederci” e lo accompagnò alla porta. Gina dissimulò l’imbarazzo dietro al suo fare professionale, stava per mandare Jhonny a quel paese, non lo fece.

Avrebbe chiesto una giornata libera alla settimana, il mercoledì, perché il mercoledì c’aveva da fare, un impegno irrinunciabile, per qualche mese pensò che potesse cambiare almeno quello, ma si sbagliava, quando le cose non devono succedere non succedono, e si sarebbe continuato così, il mercoledì sera  Jhonny non poteva lavorare. Poi chi è che va a mangiare la pizza il mercoledì? Non sarebbe stato un problema.

Non è vero che basta cambiare obiettivo per eliminare la frustrazione, gli obiettivi se sono tali non li scegli, arrivano da soli, senza chiedere permesso, entrano nel cuore e nella testa delle persone e li restano, al che ci sono poche vere alternative, la prima è  assecondarli per poi raggiungerli, ma non è detto che l’obiettivo abbia voglia di farsi raggiungere; la seconda è fingere che quello non sia più un obiettivo e quindi tentare di surrogarlo, tempo mezz’ora e il bluff è svelato; la terza è sfuggire, l’obiettivo resta ma se tu sei veloce veloce potresti provare ad evitarlo per tutta la vita, non ci riuscirai ma puoi sperare che quando succederà (di sbatterci contro) sarai talmente rincoglionito da non ricordarti più perché fuggivi.

“Allora se per te va bene puoi iniziare il prossimo week end, mi raccomando studia il menù, e ricordati le varianti alla nostra “top di gamma” la camionista on the road, triplo impasto, solo per veri gourmet. Ok?”

“Sai una cosa?”

“No, dimmi”

“Sti cazzi…”

E Jhonny si accompagnò da solo all’uscita e se ne andò, dove non lo so, ma so che se ne andò…



La Tassoni e i cappelletti, storia di un connubio che sa di sogno

Jeans bianchi, maglietta nera incredibilmente sexy e sportivamente elegante, tacco otto, sguardo intenso-dolce-determinato-imbarazzato giusto un po’, un sorriso coinvolgente. Era questo ciò che vide la prima volta che la incontrò.

Faceva caldo ma non troppo, quando lei ordinò una Tassoni senza ghiaccio la temperatura scese di ulteriori due gradi e l’imbarazzo svampó all’improvviso. La Tassoni fa questo effetto, è scritto pure sull’etichetta, “consumare con cautela, mette a proprio agio e provoca emozione”… non tanto in chi la beve (aggiungo io) ma in chi brinda con chi la beve. Susanna è il suo nome, è una ragazza rara, Gioele lo capì immediatamente, lo capì dall’accelerazione dei battiti che gli provocava la sua vicinanza, praticamente non la conosceva ma starle vicino gli causava tachicardia, tachicardia a lui che per colpa dell’ipotiroidismo, dell’atleticità e del gelo che aveva dentro da qualche tempo a quella parte soffriva di bradicardia. Questa cosa lo sorprese e non poco, senza farsi accorgere iniziò a cercare il libretto delle istruzioni, “istruzioni per l’uso di Susanna”, lo chiese a ChatGPT “mi dici dove trovo le istruzioni?”, la poco intelligente artificiale non seppe rispondere, quella presuntuosa di un algoritmo (o algoritma visto che fa la femmina), iniziò a girare a vuoto, “sto cercando, aspetta”, e Gioele - che tra le sue qualità non annovera certo la pazienza - di aspettare aveva voglia zero tanto che si scollegò e si disse “faccio senza istruzioni”.

Il destino li aveva fatti incontrare, ancora non era chiaro quale fosse il disegno ma era un fatto che fosse successo. Lei non aveva nessuna voglia di agevolarlo quel destino, non aveva tempo e quello che aveva non le andava di sprecarlo in modo sciocco, aveva un sacco di cose da fare, il giorno dopo doveva carteggiare gli infissi del primo piano, voleva cambiare il colore, quello vecchio non gli piaceva più, le ricordava troppo il periodaccio che aveva vissuto, poi doveva fare la spesa prima di entrare in turno, le serviva un sacco di roba, la dispensa era vuota, servivano pomodorini gialli, pomodorini rossi, un etto di San Daniele, un pacco di fascette autobloccanti che stavano finendo e non si sa mai, le uova per i passatelli, l’olio (extravergine di olive toscane), l’acchiappacolori per lavare bianchi e colorati insieme e la Coop apriva alle 8.30, doveva svegliarsi presto e si stava facendo tardi.

“Si è fatta una certa, che dici andiamo?”. 

Gioele non aveva sonno, era adrenalinico, glielo aveva pure detto, stava cercando tutti i modi per fare colpo, era pure un po’ incazzato perché non doveva mettere la maglietta blu e le scarpe gialle, avrebbe dovuto indossare una camicia bianca quella sera, e baciarla a tradimento per darle modo di sentire il sapore delle sue labbra, ma aveva sbagliato i tempi, non aveva colto l’attimo, aveva ascoltato troppo e parlato poco, le aveva dato spazio per pensare e quando si pensa le occasioni sfumano.

Gli capitava ogni volta che si presentava  un’opportunità importante, se la lasciava sfuggire, e dopo si allambiccava per farla ricapitare, quasi sempre senza riuscirci. 

“Ok, andiamo, ti riaccompagno…”

Il lunedì successivo decise di giocarsi la carta della sorpresa romantica (che poi cosa romanticava cosa che l’aveva vista una volta?!), andò dal suo fioraio di fiducia - Ernesto del “Paradiso della giunchiglia” - e ordinò dodici rose rosse, senza subito rendersi conto che non avrebbe saputo dove fargliele consegnare, a meno di non dare al fiorista indicazioni vaghe tipo “più o meno lì”, un vero rimbambito. Non gli restò che portarle con sé,, le aveva pagate, in nero tra l’altro e quindi uscì dal negozio con quel mazzo vermiglio intenso e se ne ritornò a casa, “va beh, vorrà dire che oltre a tonnellate di libri per qualche giorno ci sarà un po’ di colore profumato a fare da sfondo a quest’incompiuto del mio appartamento”.

Susanna intanto era ritornata alla sua routine, dimenticandosi un po’ alla volta di quella serata strana, di quel tipo strano, di quella Tassoni tiepida, e tutto senza pensare minimamente al destino. 

Passarono così le settimane, faceva sempre più caldo, l’estate stava esplodendo e la gente si rifugiava in ogni dove per cercare refrigerio, orde di umani sudati si tuffavano in piscina, qualcuno si arrampicava in collina, molti bivaccavano nei supermercati dove l’aria condizionata andava a palla. Fu lì, nella corsia dei freschi, che si incontrarono di nuovo.

“Hei ciao!”

“Dai! Che coincidenza, pure tu qui!”

“Sì, ho finito il burro”

Quello che successe dopo è un po’ confuso, fu tutto molto veloce, lei dopo aver recuperato il burro se ne andò alla cassa automatica, lui col dentifricio e una  scatola di cappelletti “fatti a mano” la seguì, pagarono entrambi ed entrambi scesero nel parcheggio sotterraneo dove stavano le loro auto, parcheggiate una di fianco all’altra, lei non trovava le chiavi, lui non trovava  la testa, si guardarono per circa ventisei secondi poi lui si avvicinò, “scusami, ho dimenticato di dirti una cosa” - “dimmi” - “vieni più vicino che la tipa della security ci ascolta” - si avvicinò pure lei - “dimmi…” - lui non disse nulla, la baciò.

La vigilante osservava la scena circospetta.

Il burro le cadde dalle mani, e rovinò  a terra spiaccicandosi insieme al dentifricio e ai cappelletti (avevano inventato una nuova ricetta),  non lo schiaffeggiò, lo lasciò fare… “non è male, no, no, non è niente male…” pensò… mentre assaporava pure lei quel gusto lingua e saliva.

La sveglia suonò alle 5.30 come al solito, Gioele si svegliò di soprassalto, sudato e confuso, aveva fatto un sogno strano, si precipitò in bagno e si lavò la faccia con l’acqua fredda che più fredda non si può, cercando di capire che cos’era successo, dov’era e dove stava andando, e chi era questa sconosciuta della Susanna che aveva scombussolato il suo percorso onirico… e soprattutto si chiese se esistesse davvero da qualche parte fuori da quel dormire agitato. 

Non trovò nessuna risposta, GPT l’aveva disinstallata, uscì di casa e si diresse in stazione a passo lento.

Bene… oddio bene, diciamo benino… ma cogliamo il lato positivo, perché questa storia, come tutte le storie, ci insegna qualcosa, anzi due cose, forse tre…. la prima è che non bisogna sognare, la seconda che non bisogna mai credere che ciò che si sogna possa avverarsi, e la terza, la più importante è che non bisogna mai finire i cappelletti. 









Pensavo fosse un social invece era un Crodino

Aristide, non è un brutto nome, forse un po’ desueto, ma con un suo fascino recondito, almeno credo, e pure lui lo crede, tanto che se ne vanta in continuazione: “Aristide, è il nome più bello dell’universo…. sappiatelo… e sono io, vedete voi”.

Aristide fa l’impiegato alle poste, una laurea in economia aziendale, la passione per la pizza (fatta e mangiata), l’hobby del fai da te, dall’imbianchino al tappezziere con qualche nozione elettrica, passando per la cura dei giardini.

Aristide è single, da anni, cinque-sei-nove-ventisette storie alle spalle tutte naufragate nel Vernelli, non perché fosse un alcolizzato, tutt’altro, ma a questo punto del racconto fa molto maledetto pensare a lui seduto al bancone di un bar sudicio sbronzandosi di anice a 46 gradi, e il maledetto fa audience, è un fatto.

Aristide si è innamorato due volte nella vita, la prima non conta perché sono passati più di dieci anni ed è caduta in prescrizione, la seconda conta ma non me l’ha mai raccontata fino in fondo perché ogni volta che ci prova diventa tutto rosso, poi pallido, poi suda, poi sviene, in preda ad attacchi vasovagali plurimi, che  se non si sdraia immediatamente rischia di fracassare al suolo e rimanerci secco. 

Da qualche quando, dopo aver passeggiato nei vicoli del centro, il suo passatempo preferito dopo le ventiquattro è scorrazzare sul web, sui social in particolare, si ingozza di real ed aforismi, è un fans di Ornella Vanoni, Angelo Duro, Roberto Parodi e Paolo Crepet, li guarda fumando sigari toscani aromatizzati al cioccolato, che nonostante il sapore non fanno ingrassare. 

Nel suo curiosare di qua e di là, tra una storia, un post e una richiesta di aiuto per un idraulico pubblicata in “Sei di Poggibonsi se..”, un sera di primavera di un due tre anni fa si è imbattuto in un profilo diverso dal solito, Maria Rosaria Scicolone da Forlì. 

Una ragazza castana, con un sorriso dolce e ammaliante, lo sguardo intenso, un figlio, la passione per i fiori, le passeggiate all’aperto e una proprietà di linguaggio del tutto sorprendente per quel luogo virtuale lì. Non è riuscito a non soffermarsi più del dovuto (che poi quanto è dovuto chi lo stabilisce? Ora che ci penso…).

“Le chiedo l’amicizia dai, rischio di fare la figura del piacione seriale, dell’invadente, del marpione, ma voglio tentare, vado, clicco, inoltro…” 

Passarono tre giorni, nulla, la ragazza misteriosa non accettava  il collegamento, “pure intelligente” pensó Aristide “oltre che apparentemente affascinante”.

Sulle prima ci rimase un po’ male, ma quel rifiuto virtuale in fondo gli fece piacere: “l’avevo detto io che era diversa”.

Poi tre giorni dopo ancora successe qualcosa, Maria Rosaria Scicolone da Forlì “ha accettato la tua richiesta di amicizia”.

Aristidi ne fu molto sorpreso.

Ecco così è iniziata questa storia, dalla sorpresa di quel giorno. Il passaggio successivo, come tutte le storie social che si rispettino in questo sbagliato XXI secolo, è stato quello di analizzare il suo profilo, le foto, i dettagli delle foto, le didascalie, tutto quello che poteva dare indizi: è sposata? È single? È fidanzata? Ha avuto la varicella? Dove vive? Le piace il vino? E i biscotti? Ha la patente? Qual è il suo libro preferito? Ma verrebbe mai a vivere con me? 

Ed altre cose così, che uno pensa quando si mette lì a guardare.

Tutte queste domande, che si intrecciavano con il quotidiano di Aristide, non riuscivano però a trovare risposta, nessuno dei suoi amici in carne e ossa la conosceva, i suoi amici virtuali millantavano, lui brancolava nel buio.

Non restava che chiederlo direttamente a lei, invadere la sua privacy web, in maniera diretta ma educata, trasferendole il vero motivo della sua curiosità: lei senza altri fini.

Se l’avesse incontrata in fila alla stazione dei treni mentre entrambi erano lì a fare il biglietto per Roccaraso, conoscendolo, le avrebbe semplicemente detto: “ciao, ma io e te ci siamo già visti?”. E quando lei avrebbe risposto chiaramente “no”, lui avrebbe aggiunto “peccato”, e da lì sarebbe partito con tutto il suo armamentario di ovvietà e tentativi di seduzione a là carte, con risultati tutti da verificare… ma quella non era la situazione. 

Erano solo due contatti su Facebook.

Messenger: “ciao, non posso chiederti se ci conosciamo nella vita perché so già la risposta e anche tu, e ne uscirei proprio male, ma posso dirti che normalmente non faccio queste cose anche se non so come dimostrartelo. E posso aggiungere che vorrei sposarti, fra tre anni, ma dovresti darmi la possibilità di conoscerti già domani, perché comunque sposarsi è una cosa quasi sempre seria. Che ne dici?”.

La risposta fu il silenzio per 24 ore, poi: “avrei bisogno di un idraulico prima di sposarti, se me ne trovi uno entro venti minuti  ci penso🤣”. 

Ed è così che è iniziata la loro “amicizia” on-line, fatta di messaggi, immaginazione, curiosità, scambi di confidenze a volte anche eccessive, voglia di conoscere sempre di più da parte di lui e voglia di non farsi conoscere del tutto da parte di lei. Tra diffidenze, sorrisi asincroni, tentativi di andare al fisico mai riusciti, e tutto il resto (il resto vero) che sta fuori da queste macchine infernali, dove anche io mi diverto a raccontare, a fare da contorno.

È buffa l’evoluzione, viviamo nell’epoca dell’iperconnessione, dove tutti possono raggiungere tutte, dove si moltiplicano le possibilità di incontro, di scontro, di vita, ma nel novantasette per cento dei casi non si esce da quel limbo virtuale, come Aristide e Maria Rosaria, che io lo so che sarebbero perfetti per andare oltre e pasteggiare uno di fronte all’altra almeno tre volte, ma l’oltre non succede mai, assuefatti ai microchip, surrogati di sguardi veri e mani nelle mani. 

Comunque ieri sono andato in posta, fila assurda, di fronte a me una vecchietta col nipote e prima di loro una ragazza castana, camicia bianca e sorriso spontaneo,  questa arriva allo sportello n. 4, l’operatore ha un cartellino sulla camicia “Aristide”, lei deve pagare una multa per eccesso di velocità, perché è una pirata della strada pure irascibile, gli passa il bollettino e lui: “Allora Maria Rosaria…. 378 euro… ah però…”. Alza lo sguardo, diventa rosso, sorride, chiude immediatamente lo sportello tra le proteste della vecchietta e l’euforia del nipotino per questo siparietto improvviso, esce dal bugigattolo dove stazionano normalmente gli impiegati delle poste, arriva in sala e “un Crodino, adesso tu vieni con me e ce lo beviamo, un Crodino non puoi dire di no… e ti lasci guardare, e mi fai sentire la sua voce, perché sono già passati sei mesi e mancano due anni e mezzo al nostro matrimonio”.

Uscirono, la vecchietta osservava esterrefatta la scena, il nipotino aveva preso il posto di Aristide nel bugigattolo, i due amici social si stavano osservando uno di fronte all’altra, ebbri di Crodino, lui parlava-parlava-parlava, lei sorrideva e pensava: “però sto Zuckerberg qualche cosa di buono lo ha fatto”.

Io passando di fianco, dopo che il nipotino della vecchietta mi aveva spedito una raccomandata, li sentii solo dire: “allora d’accordo, domani sera, a cena, lasciamo a casa il telefono”.

Fui io quella volta a sorridere e me ne andai soddisfatto come non succedeva da tempo.




L’amore è un peperone

Resilienza: capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.

Copertonare per aumentarla è una soluzione? Chissà… potrebbe.

Potrebbe ma anche no, perché non tentare comunque? Come fanno i marinai che “quando arrivano nel porto vanno a prendersi l’amore dentro a un bar”.

Ma poi cosa chiedono al bancone: “Vorrei una bottiglietta di acqua gasata, due noccioline, un vermout e un etto e mezzo d’amore”? 

E dove lo mettono un etto e mezzo d’amore? Lo incartano? Lo comprano sfuso? Lo imbottigliano?

Che forma ha l’amore? Liquido? Solido? Ghiacciato? O gassoso?

Per me gassoso, vaporoso, anzi evaporoso, ma un evaporoso persistente, avvolgente, amaro, acido, aromatizzato al cioccolato ma con venature di tabacco, rollato a mano, che se lo lasci entrare poi impregna.

Quindi l’amore è evaporoso ed impregnante e rollato a mano.

E che c’entrano i copertoni? E copertoni incatenati per giunta?

Ecchenneso! Così stavano.

Forse perché l’amore è una catena? O un catenaccio?

Giocare con le immagini e le parole è un esercizio buono a passare il tempo la domenica pomeriggio, riflettendo sui massimi sistemi, che poi alla fine non sistemi proprio niente, nemmeno se approfitti di Chat GPT, l’intelligenza un po’ artificiale e un po’ paracula.

Un gioco di società in cui puoi fare anche da solo, onanismo dell’anima, che sai come inizi e non sai come finisce. Un gioco in cui regali fiori ogni giorno per mille giorni, se sei ricco da potertelo permettere altrimenti ti limiterai ad una settimana. Fiori per una settimana che non appassiranno mai, al massimo rinsecchiranno, senza smettere di profumare.

Come la vita in fondo.

Allora riepilogando l’amore è evaporoso, impregnante, rollato a mano, fatto a catena e copertoni, che vivi spesso da solo, che sai come inizia ma non come finisce (se finisce), che profuma come i fiori secchi che hai regalato, con cui puoi giocare come fanno i bambini.

Come fanno i bambini sì, il gioco dell’amore, un Risiko senza strategie, in cui vince chi vince, e perde chi resiste.

Buono a consumare inchiostro digitale e calici di vino sugli scogli.

Chiaro no? Forse, adesso vediamo, vediamo che succede, se succede, quando succede, se è successo.

È successo? Forse sì, anzi probabilmente sì, anzi sicuramente sì.

Una cosa è certa comunque, l’amore si riaffaccia, o si rinfaccia, come i peperoni crudi.

Che brutta immagine l’amore come i peperoni, ma lasciar andare senza pensare, giocando con i pensieri per l’appunto, disegna anche questo.

Scriverò un manuale, anzi un manabile, “L’amore è un peperone” sarà il titolo.. Lo leggeranno in cinque, io che lo scriverò, l’editore che lo pubblicherà, mio cugina che non si fa mai i cazzi suoi, uno per sbaglio perché attratto dalla copertina, e un marinaio che ha provato in mille bar senza mai trovarlo nel menù.

Tutto questo non ha senso? No, no, un senso ce l’ha, deve averlo per forza, anzi ha molti sensi, come le canzoni, mille sensi. Chi le scrive ne ha uno, chi le ascolta uno diverso, un senso per ogni ascoltatore. Perché gli ascoltatori sono così, leggono nelle canzoni ciò che vogliono leggere, Sant’Allegria direbbe Ornella senza avere idea del danno che ha fatto, non ti dimentico direbbe un pinguino tattico nucleare.

La soluzione del gioco di parole? Resilienzare, e il cerchio si chiude, forse, adesso vediamo se si chiude. E se non si chiude, si chiuderà, in un modo o nell’altro.