Faceva freddo, molto freddo, direi freddissimo

Correva l’anno millenovecetoottantacinque, faceva freddo, moto freddo, direi freddissimo, era il cinque di gennaio, la befana non passava da quelle parti già da un po’, chi aveva lasciato allora quel super bob due posti rosso, con il cupolino e i sedili blu imbottiti, bello molto bello direi bellissimo, ai piedi di quel letto a una piazza, in ferro battuto e fiori dipinti?!

Di lì a diciotto giorni sarebbe cambiato il mondo, almeno per qualcuno, di lì a diciotto giorni sarebbe scomparso il primo pezzetto, il più importante, il primo di una lunga serie di robe che svampavano senza chiedere permesso.

Di lì a diciotto giorni sarebbe scomparso quel profumo terribile di MS di cui allora mai nessuno avrebbe pensato di poter sentire la mancanza ancora oggi, di lì a diciotto giorni qualcuno sarebbe andato e qualcun altro sarebbe diventato grande all’improvviso, troppo grande per la sua età, troppo grande sì, direi grandissimo.

Nel momento in cui le cose succedono, quelle vere intendo, è difficile rendersi conto di quanto possano lasciare il segno, direi segnissimo. Succedono e cambia tutto.

Nel momento in cui le cose succedono non ci si rende conto di quanto possa fare la differenza il vuoto che lasciano. 

“Grazie! È bellissimo. Due posti, come lo volevo io. Blu come lo volevo io. Veloce a bomba, come lo volevo io… smack”. 

Sorrise, come non faceva più da tempo, sorrise in quel modo irresistibile, rassicurante, coinvolgente, vero, in quel modo che da sempre affascinava tutti coloro che ebbero la fortuna di averlo conosciuto. 

Di lì a diciotto giorni non avrebbe sorriso più, mai più.

Faceva freddo, molto freddo, direi freddissimo, così freddo come non sarebbe successo più.



Il dehors vicino all’autostrada e la donna-ragazza con gli occhiali BB

Era seduta al tavolo con quel gruppo di tipi strani, di fianco a quello con la camicia bianca, le bretelle rosse, i pantaloni verdi, le scarpe bianche, la cintura marrone, gli occhiali neri e pelato come la palla n 8 della carambola del Clan (dico la 8 perché comunque ai lati insisteva un’ombra nera ricordo di un capello che fu). Aveva pure i baffetti oltre alle bretelle.

Ai loro piedi tutta una roba di chitarre imbustate in grandi custodie nere, “mona ®️” il logo stampato su quella “più enorme” (sì lo so, è un errore e pure gravissimo ma ho voglia di scrivere “più enorme” quindi lo faccio) sembrava quasi un violoncello, chissà se esistono i violoncelli elettrici?!

Parlavano tra di loro, un ricciolone con la barba folta  aveva una voce cavernosa, impostata per essere intelligente se solo avesse taciuto, “sono a dieta finché non mangio… ahahahahaj”, sono riuscito a capire. Forse non era un “ahahaha” la sua risata insistente, ma un “eheheheheh”.

Tutti parlavano tranne lei, lei taceva. Taceva e fumava un sigaro aromatizzato al caffè, che strideva con i lunghi capelli neri, le unghie smaltate rosso scarlatto, gli occhialoni da sole stile BB, il jeans attillato e le sneaker Premiata. 

Non si atteggiava, era così, sportivamente ricercata, anche nello spolverino nero come i capelli e il simbolo Premiata, era cosi… silente e assorta, decisamente triste, ma di una tristezza profonda, prolungata, quasi cronica, che nemmeno il rossetto rosso come lo smalto riusciva ad alleggerire, anzi le donava ancora più profondità. Nessuno pareva fare caso a lei, eppure era quella che in quel verminaio urlante e multicolore, spiccava tra tutti, un cameo, l’eccezione che non confermava nessuna regola ma era semplicemente diversa.

Ai suoi piedi, accovacciata quasi arrotolata, una palla di pelo, brutta come pochi altri cani al mondo, ingarbugliata, soffice, nera, ma silenziosa come la sua padrona, anche se non portava il rossetto. Un collarino di strass. Se ne stava e se ne stette immobile fino a quando la donna misteriosa e apparentemente invisibile a quasi tutti si alzò di scatto, spense il sigaro e si avviò verso il bagno, la cagnolina alzò il musetto, aveva gli occhi verdi che non si staccavano un istante dallo spolverino che ondeggiava sotto i colpi d’anca naturalmente sapienti.

Ho dimenticato di raccontare dove si stava svolgendo il tutto, è importante, perché credo aiuti a rendere l’atmosfera, si stava nel dehors di un bar di passaggio, un qualcosa a metà strada tra un parcheggio per scambisti con tettoia e un locale per la pausa pranzo di impiegati simil manager dal lunedì al venerdì. Uscita autostrada, perfetto per fermarsi a prendere un caffè dopo una domenica a pranzo non si sa bene dove ma comunque lì vicino, 

Dopo pochi minuti uscì dal bagno, il rossetto ripassato, sempre gli occhiali calati, una lacrima vistosa che le scendeva lungo la guancia destra, nessun tentativo di asciugarla. Batuffolo (ho deciso che il cane si chiama così anche se è un cane femmina) sempre fissa su di lei. Si avvicinò rapidamente ai tavolini occupati dai suoi improbabili compagni di viaggio: “”Io vado” - “Come vai? Ma non vieni con noi?”  disse arlecchino n. 8 - “Scusate, un imprevisto”.

Nessuno aggiunse altro, Batuffolo si alzò in piedi ad una velocità che solo due minuti prima sarebbe sembrata una follia, le saltò in braccio, si diressero verso l’auto.

Ora l’autore vero, quello che scrive i romanzi, quelli con un inizio e una fine e una storia che non è pezzetti di niente, chioserebbe così: “salutati gli amici si voltò lentamente, i loro sguardi si incrociarono per un attimo, un brivido li attraversò, lei si accorse di lui, lui si accorse di lei, era quello il segno da cui partì il tutto”.

Io invece vi dico che lei, il suo cane e il suo carico di irreversibile amarezza salirono in auto, mentre io me ne restai ancora un po’ lì sul trespolo, a sorseggiare le ultime gocce di un caffè americano e a chiedermi perché il signore con i capelli bianchi affacciato alla finestra poco prima mi avesse guardato così con sospetto? Non ho la faccia da delinquente, solo due passi dopo pranzo, e la foto? No, non volevo preparare un piano per svaligiare l’appartamento notte tempo, giuro, solo così, la voglia di catturare un attimo.

Ma che è andata a fare in bagno? E perché quella lacrima, e perché quel rossetto ravvivato? E perché lì in quel parcheggio? Ma dov’è che doveva andare dove? 

Tira vento ora, una brezza leggera ma rompe un pò il cazzo perché l’occhio è ancora dolorante da ieri, e l’antibiotico oftalmico ha fatto effetto al cinquanta per cento, e le storie di tutti si sommano per strada, per ricordare a noi illusi che siamo convinti di essere portatori di unicità che non siamo altro che un pezzetto di tanto. 

Anche bretelle rosse ha la sua storia, diversa da tutte le altre o simile a tutte le altre; e anche voce più  cavernosa che intelligente sarà stato triste e pure felice un giorno che così solo lui; e anche la chitarra convinta di essere un violoncello elettrico avrebbe qualcosa da dire se potesse parlare. Insomma di unico ed irripetibile non c’è proprio niente, ci sono solo momenti vissuti più intensamente di altri che hanno la pretesa errata di essere diversi.

Ad un tratto un rumore, una frenata brusca sull’asfalto, di nuovo la  ragazza col cane, è ritornata, scende dall’auto, viene verso di me, alza gli occhiali BB, mi guarda: “Non dire cazzate, l’unicità esiste, e non la cancelli né col rossetto, né con le unghie laccate, né con una lacrima, né con quegli stupidì anelli, né con ste storie della minchia che scrivi senza essere uno scrittore…. sappilo”.

Batuffolo dall’auto abbaiò due volte, la chitarra strimpellò da sola nella custodia (sarà stato il vento), la ragazza ripartì. “Oh me lo paghi l’americano, mi serve il trespolo…stai lì seduto da un’ora”.

Non ci sono più i baristi di una volta.






Lucio credeva che fosse giusto fingere di credere

Era un po’ quello il destino di Lucio, fingere di credere a quello che gli raccontavano le persone a cui voleva bene, per non ferirle, per non essere troppo duro, come sapeva essere quando oltrepassava il limite, preferiva accumulare lui le difficoltà piuttosto che scaricarle su di loro, preferiva non infierire piuttosto che andare oltre, preferiva perdere piuttosto che aver ragione.

Lo faceva con Ginevra, quella sua figlia sedicenne fancazzista con i capelli lunghi e gli occhi arroganti pronta a trovare sempre la scusa buona, la giustificazione per tutti i suoi micro macro errori, ma così adorabile quando voleva esserlo (sempre meno in realtà). “No ma papà stavo rispondendo a Jordan che forse sta annegando in mezzo al lago di Como, a causa di una tempesta di grandine” - “No, papà non è colpa mia, è stato Saturno che si è allineato con Giove e i loro influssi celesti hanno alterato il segnale Wi Fi e quindi il pc si è scollegato e io non potevo….” - “No ma papà oggi mancavano i due terzi di classe, forse anche i due terzi e tre quarti, c’ero solo io praticamente, o almeno c’ero solo io viva” - “No ma papà, è colpa di Putin che ha invaso Traversara, con i carri armati e i riciò elettrici”.

Lo faceva con Arrigo, il suo migliore amico, che non riusciva ad uscire con la stessa ragazza per più due volte di seguito e la moglie era solo un incidente. “Lucio, oh stavolta era quella giusta, almeno credevo, l’avevo capito subito, almeno credevo, mi stavo innamorando, almeno credevo, avrei voluto passare la vita con lei, almeno credevo, ma ti ricordi quella volta a dodici anni che cosa mi è successo?” - “No, sinceramente non lo ricordo” - “Ma dai, come fai a non ricordarlo? Ugo, il mio persiano, è scomparso e non l’ho più ritrovato” - “Quindi?” - “Lei ha un persiano, e sai come si chiama? Ugo!! Chi mi garantisce che non sia stato il mio Ugo? Chi mi garantisce che non sia stata lei a imprigionarlo allora?!” - “Te lo garantiscono i io, i gatti non vivono trecentoventidue anni e tanto è passato dai tuoi dodici anni, non può essere lui il tuo Ugo!” - “Non sono passati trecentoventidue anni da allora, solo trentotto!” - “Ok Arrigo, ci credo. Parlami allora di Elsa, dopo tutta questa disperazione ho bisogno di capire. Dico Elsa la mora con cui ti ho visto questa mattina al Viale, una terza abbondante e la risata sguaiata. Sono certo che gli stavi raccontando di Ugo, non altro, giusto?!?!” - “Ahh, è stato davvero un caso, l’ho incontrata proprio nel momento più difficile, che fortuna sai? Ero distrutto, credo mi abbia salvato. A proposito, questa sera nel caso sono con te, ci conto?” - “Si tranquillo Arrigo, sei con me…. ho disponibile anche la foto di giovedì scorso, la posto alle venti e trenta, vai sereno…” - “Grazie Lucio, sei un amico”.

Lo faceva con Enzo, il suo personal trainer. “Lucio tu non sei poco portato per lo sport, hai il muscolo maleducato, devi solo trovare il modo giusto per fargli apprendere ciò che deve” - “Ma Enzo, sono sette mesi che ci concentriamo sul burpee, forse il Crossfit non fa per me?” - “No fidati, ti serve solo un po’ di concentrazione in più, hai della stoffa”.

Lo faceva con Agnese, sua nonna. “Lucio, le medicine le ho prese, tutte, agli orari giusti, secondo te mi voglio lasciar morire?” - “Certo che no nonna, lo so che non lo faresti mai, ma la cardioaspirina ti è caduta a terra e non te ne sei accorta, l’hai pestata per errore facendone polvere e non te ne sei accorta, ci sei ripassata sopra perché ti sembrava calcinaccio mica altro, ora riprendiamola con un po’ di acqua, ti aiuto”.

Lo faceva con Selena. “Lucio credimi, non possiamo stare insieme perché ti amo troppo, no anzi perché ti voglio troppo bene, no anzi non possiamo  perché meriti di meglio, sei speciale, c’ho provato sai? Ma ti farei solo male, sono troppo instabile” - “Ok, capisco, so perfettamente che Aldo non c’entra nulla ed è solo il tuo psicoterapeuta che solo incidentalmente corre i cento metri in 10.23, balla il tango, solleva cento chili di panca e dice sempre vaffanculo. E so perfettamente che ti scrive ottantanove messaggi all’ora per parlare della tua ultima seduta e del problema che hai al tricipite, che è anche un po’ fisioterapista, e lo so che lo fa solo per devozione professionale mica per portarti a letto!” - “Esatto è così, non c’entra niente lui!” - “Bene, sii felice Selena”.

La verità a volte è troppo ruvida per essere raccontata tutta e tutta subito, Lucio questo lo sa anche se fatica ad accettarlo, meglio girarci attorno e lasciare che emerga un po’ alla volta, in fondo lo ha fatto spesso anche lui, lo ha fatto nella vita di tutti i giorni, lo ha fatto con Rita, Gloria, Annica, Roberta e anche Iris. Non lo ha fatto con Egle e Gilda, a loro ha detto chiaramente “Io vorrei, ma sono innamorato di un’altra da venticinque anni, se vuoi possiamo solo restare amici” - “Perché me lo dici ora? Ora dopo quello che…”, hanno risposto entrambe (in momenti diversi chiaramente). “E’ perché credo sia giusto tu lo sappia”. Poi si è ritrovato l’auto rigata, un fallo disegnato sul portone di casa, tre gomme a terra nell’arco di due settimane e ha pensato che forse per il futuro sarebbe bene metterla giù in maniera più diplomatica, Manuel gliel’ha scritto via mail: “Oh, io non ti assicuro più! La tua atti vandalici sta mandando in crisi di liquidità la compagnia, vedi te!”.

E comunque anche questa storia di voler proteggere ad ogni costo le persone a cui si vuole bene inizia ad essere molto sopravvalutata, sarebbe bene che le persone a cui si vuole bene iniziassero a proteggersi da sole, perché il rischio è quello di creare dei mostri, degli illusi e dei debolucci, si proprio così dei debolucci. 

Naïf come termine “debolucci”, vero? Ma è così. Qualcuno scriveva da qualche parte (forse su TikTok) che tempi facili creano uomini deboli, tempi difficili creano uomini forti, e allora proteggere è sbagliato.

Lucio sapeva che Selena mentiva, con Aldo era in corso da mesi, come sapeva che mentiva sua nonna, non per le stesse ragioni, ma per lo stesso fine: proteggere Lucio, farsi i fatti propri e convincere se stesse che lo facevano perché gli volevano bene.

Cazzate. 

La nonna voleva suicidarsi dolcemente ma rapidamente, un infarto provocato da interruzione nell’assunzione di cardioaspirina (anche se non è chiaro perché si rimpinzasse di vitamina D e formaggini Mio per combattere l’osteoporosi, che se ne fa un morto di ossa forti?!?), godeva all’idea che le sue amiche dicessero: “fata bèla mort acsè”!!

Selena voleva essere felice, con Lucio non lo era e non lo sarebbe mai stata ma gli faceva comodo e gli aveva fatto comodo, con Aldo non lo sapeva, ma la novità la estasiava e così si trascinò per un po’ (poco poco in realtà) preparando il terreno, un comportamento da vero maschio Alpha (si chiama inversione occasionale dei ruoli), un’uscita di scena quasi da non accorgersi di nulla, Lucio lo aveva capito da mo…. ma non voleva dispiacerla, sperava il po’ diventasse “un po’ più di un po’”, sanguinava silenziosamente il patacca e assecondava questa sua velleità…. ma ripeto… non voleva dispiacerla (Oh capito l’assurdo? Non voleva dare dispiacere ad una a cui non fregava un cazzo di lui?! - la mente umana è bella strana - nda), salvo poi rifarsi su altre donzelle ignare e incolpevoli. Oddio…. incolpevoli incolpevoli non lo so, perché chissà se Gloria era davvero single - come aveva spergiurato a cena - la prima sera che si infrattò con Lucio in macchina sotto al ponte della Castellina, visto che a metà dell’amplesso campestre le arrivò un messaggio da tale Odoardo: “dove cazzo sei che Enrichetto ha bisogno della poppata?!”.


Le scale del Primo Piano, il Panamá, le pizze…


Oh ve lo dico…  e ve lo dico nella consapevolezza che chi non ha vissuto quegli anni non potrà capire fino in fondo…. e sì lo so che dicono tutti così, quelli dei ruggenti anni cinquanta, poi quelli dei fantastici sessanta, e pure dei difficili ma incredibili settanta, per non citare poi gli spavaldi ottanta (e mi ci metto pure io), e tutti ma proprio tutti, senza rendersene conto, a magnificare e idealizzare solo la propria giovinezza e quello che ha rappresentato nelle loro vite: il futuro, i sogni, il domani che si costruiva pezzo dopo pezzo, le sconfitte, i pianti, le risalite, i sorrisi, le fughe in camporella, la voglia di fare, la rabbia, le interrogazioni e poi gli esami di matematica-fisica e diritto, la fatica, la scuola, la necessità di andare, di andare fuori di casa, fuori di testa, fuori dalle regole, il lavoro, la famiglia, gli Amici.
E gli amori? Quelli veri, quelli finti, quelli di plastica, quelli indimenticabili,  quelli che sembravano non dover finire mai, quelli che ritornavano, quelli che sarebbero finiti dopo mezz’ora, forse anche quindici minuti, quelli da “una botta e via”, quelli da “via senza manco una botta”, quelli di una vita, insomma tutto l’armamentario tipico di chi diciotto-diciannove-venticinque-trentadue anni e passava di lì.

Ma fra tutto questo caos che ha la pretesa (fasulla) dell’unicità,  c’è qualcosa che solo una, massimo due generazioni hanno vissuto, almeno qui in Romagna, almeno qui a Faenza e dintorni, un locale che faceva da sfondo a ciò che succedeva e che era più di un locale o forse anche meno, una roba che dire bella è un azzardo stilistico, che dire fascinoso è fantasia, che dire di tendenza è minimizzare, una roba che si può descrivere solo in tre parole: una scala (mobile), un piano (il primo), la gente (tutta).
Tre parole e un posto brutto, un centro commerciale che manco a Timisoara, un disco-pizzeria-pub-risto music, post pre e durante dinner, cresciuto in maniera irregolare in mezzo ad una ferramenta, un forno, una pescheria, la Coop, gli zingari, un negozio di elettrodomestici che da grande sarebbe diventato una blasonata catena nazionale.

Sono andato questa sera, un po’ per caso un po’ perché c’avevo voglia, a distanza di trentatré anni dalla prima volta in cui ci misi piede, in quel due di ottobre di un 1992 banale per tutti ma fantastico e terribile per me, finiva uno dei periodi più belli, brutti e difficili della mia vita, iniziava uno dei periodi più belli, brutti e difficili della mia vita.

Anche questa sera ho lasciato che a portarmi sul quel terrazzo interno, quasi un soppalco apparecchiato, fosse ancora una volta la scala mobile, che ora come allora è partita solo al passaggio dinnanzi alle fotocellule.
Man a mano che procedevo il vuoto ha iniziato a riempirsi, man a mano che salivo la scala ha iniziato a rallentare, oh non si passava, cataste di ragazzi e ragazze si affastellavano a famiglie in fuga, i ferormoni hanno iniziato ad invadere l’ambiente.
La cameriera mi è venuta incontro: “Buonasera!”. 
Non ho risposto, lo sguardo perso a guardare una vita prima, lei invece ancorata al presente mi chiede: “ti siedi qui?”, non ho risposto nuovamente, “scusa, ti siedi qui?!”, “qui lì? Ok va bene”. 
Una musica che sentivo solo io, silenziosa, ha iniziato a invadere lo spazio, il tempo, il bar all’ingresso che non c’è più, il bar in fondo alla sala chiusa; ad un tratto sono apparsi lo Squizzone del lunedì, le cinquecentocinquanta pizze bruciate, Lorenzo, Roberto, Tommaso che si affacciavano al bancone per salutarmi, la schiacciatina macchiata di pomodoro, la Sangria, il Coca Rhum, Omero, Annamaria, la Caipiroska, Bicio, le pizze da asporto, lo Speciale Mascarpone-Torta di Carote-Cioccolato Fuso, Marzio..
Poi quella gnocca, quella carina, quella timida, quella simpatica, quella che se la tirava, quella che la conoscevamo tutti, quella che li conosceva tutti, hanno iniziato a passare di lì ancora una volta.
E io ora come allora guardavo e non avevo il coraggio di dire nulla, un po’ invisibile un po’ scontato.
Ho visto anche Matteo e i suoi jeans intercambiabili, Sergio sordomuto che “Berlusconi vaffancccullo” con tre c e due l.
Ho fatto due passi fino al bagno, quello con la porta rotta, il lavello semidistrutto e la fila perenne.
Poi Susanna, Ombretta, Davide, Zimbo, Cleto, la Patty, Walter, Laura, Marika, Sandra, Silvano. 
Si anche lui, lui più di tutti gli altri, con il cellulare blu elettrico della Swatch e la Mercedes classe SL, che pesava più il cellulare della Mercedes.

Pochi posti hanno lasciato il segno come questo, pochi posti hanno disegnato un’epoca come questo, pochi posti come questo  sono leggenda per chi “facciamo un salto al Panamà e poi via agli Hippo” e io a fare le pizze.

È buffo come alcuni ricordi sedimentino nella nostra mente, pronti a riaffiorare nei momenti più impensati, con quel sapore di nostalgia mista ad una pretesa (caduca) di immortalità.
Su quella scala sono nate coppie, sono scoppiate amicizie, sono tramontati progetti, sono cresciute fantasie, si sono addormentati i sensi dopo la terza boccia di prosecco, si sono sfilate calze velate.
E di fronte al forno delle pizze passeggiava “avanti e indietro”, senza che io potessi nemmeno immaginarlo allora, chi un giorno avrei incontrato al solo scopo di lasciarmi irrimediabilmente travolgere..

Chi non si ricorda la serranda di Amorino che puntuale come la morte alle 00.30 scendeva in automatico fracassando al suolo dopo aver travolto sgabelli e avventori ubriachi?
E la musica dal vivo? E lui appoggiato a lei che si strusciava come un babbuino con una paresi agli arti inferiori? E la scala di servizio che ti portava sul retro? E il parcheggio che ospitava auto appannate e le sue improbabili liasion interne? Credo siano stati concepiti almeno trentadue bambini dalle 3 alle 4 di notte in quei dieci anni malcontati.

Il tempo è passato, ma non sono passati i ricordi, che continuano a vivere un po’ dentro noi ed un po’ tra quelle quattro mura sgarrupate, ricordi stampati su una t-Shiet grigia, su di un cappellino blu con l’ala tesa, blu come le felpe e blu come il cappuccio delle felpe.

“Mi fai una schiacciata a spicchi?”
“Tu mi porti un calice di rosso?”
“Va bene, ma tu fai presto”
“Va bene, ma tu ricordati di non dimenticare…. mai”














Il valore aggiunto sul treno

Lei Sofia, lui non lo so. Vent'anni? Massimo ventuno.
Sono saliti a Castel San Pietro, seduti uno di fianco all'altro, belli, puliti, vicini, serenamente agitati, lui ricciolino, lei pallida e con le unghie tutte smangiucchiate, esame di economia o qualcosa di simile di lì a poco (sono fuori da quel mondo da troppo tempo per conoscere i titoli), il Conto Economico e lo Stato Patrimoniale, riclassificazione a Valore Aggiunto, a Costo del Venduto, a Costi Variabili e Margine di Contribuzione, il MOL? Cazzarola il MOL. Poi i tratti di evidenziatore giallo, i post-it gialli, le note a margine.

"E' noiosa sta roba, preferisco scienza delle costruzioni" dice Sofia e scopro che è d'accordo anche la madre, glielo dice sempre, "No ma ripassiamo dai... parliamo del consumo dei materiali" diceva lui disegnando nell'aria uno schema mentale con la mano sinistra, uno, due, quattro,  tac tac.... sembra una scala a pioli.

Io continuavo ad indugiare su pagina diciannove del "Club delle cattive figlie" comprato nel fine settimana in uno dei miei pellegrinaggi tra una libreria e l'altra, ma non riuscivo a concentrarmi, distratto da loro, nemmeno il chihuahua antidroga salvato da morte sicura e per questo sempre grato a Monica (protagonista delle prime  pagine) è riuscito a riportarmi al punto.

Ordinati nella loro tarda adolescenza (se ne sentiva ancora il retrogusto pur essendo abbondantemente avviati all'uscita), ordinati gli appunti, ordinate le dispense, ordinati i raccoglitori, e subito penso (è più forte di me) che si può essere ordinati e non per questo noiosi, e ancora li descriverei bonariamente tesi ma concentrati, sognanti, vicini.

Volevo intervenire: "lo Stato Patrimoniale immaginatelo come fonti di finanziamento e impieghi di capitale, è molto meno noioso così, credetemi, vi farà capire che cosa serve per fare che cosa, anche il capannone che un giorno progetterete avrà bisogno di essere finanziato, per farci dentro quello che servirà e lo Stato Patrimoniale ve lo racconterà e vi farà capire un pezzetto della storia". 
"E' un po' come nei rapporti di coppia" avrei aggiunto, come nel vostro, fonti di affetto e impieghi di sentimento, cosa darsi a vicenda per fare cosa, un po' lo dovete mettere voi (è il Patrimonio di Condivisione) un po' potete prenderlo a prestito (i Debiti di sentimento), l'importante è che il risultato economico sia positivo, e che Margine Amoroso Lordo sia più alto del Costo del Debito, Modigliani e Miller sono arrivati alla dimostrazione del loro teorema  partendo da lì: i rapporti con Giuditta e Genny (le loro fidanzate dei tempi del liceo), ne sono praticamente certo!!
Ma non riuscivo ad interromperli, affascinato dalla loro giovane complicità, da quello stare appiccicati. Vicini.
Parlavano sottovoce, Sofia guardando lui, lui guardando la sua scala a pioli immaginaria, senza accorgersi del mio sorriso impossibile da trattenere, la tenerezza fa brutti scherzi, quei due stavano costruendo un pezzetto del loro futuro, lì sul Regionale Veloce TTPER 17438 delle 6.59 (che non sono le 7.00 non è pignoleria è necessità di salirci in tempo...se arrivi alle 7.00 e il treno partiva alle 6.59, hai perso il treno, punto.), il loro futuro, lo stavano costruendo insieme, per un giorno, un mese, due anni, una vita, non importa "quel pezzetto" era così, lì, in quel momento, vicini.

Libri e limoni, anche se non subito, troppo esame e troppo sul pezzo, ma sono certo dopo avrebbero recuperato.
Lui si agitava, sostenendo le proprie tesi non del tutto corrette, "il valore aggiunto è prima del costo del personale, ha ragione Sofia fidati di lei" anche questo volevo dirgli, ma non l'ho fatto.
Lui si agitava e lei di tanto in tanto gli accarezzava il naso, dolce ma non portatrice di carie, vera, non lo voleva sentire teso, sapeva come calmarlo, ci è riuscita, almeno per cinque minuti.
Ho sentito il bisogno, subito assennatamente abortito, di scrivere a qualcuno che comunque non avrebbe capito: "dovresti vedere come sono belli!".
Non poter o non voler condividere gli attimi che ci colpiscono è una delle violenze più ingiuste che la vita ad un certo punto decide di regalarci.

Il regionale era decisamente in orario, "dai preparati, siamo in arrivo, Bologna centrale" dice lui - passano trenta secondi - "che fai rompi me e poi ritardi tu?" dice lei, lei già in piedi, zaino in spalla, sciarpa forse eccessiva ad aprile nonostante la pioggia, sguardo comprensivo, lui ancora a infilare i raccoglitori, a recuperare il giubbotto, a dire "arrivo, arrivo".

Li ho osservati ancora per più di un po', li ho visti affrontare il sottopasso, risalire le scale, attraversare l'androne che porta al porticato, schivare gli autobus in transito, sgattaiolare in mezzo a quella follia di auto-moto-bici-tram-pedoni che ogni giorno si aggrovigliano in quel confuso costruire la giornata, anche sotto la pioggia come oggi, anzi con la pioggia ancora di più.

Li ho osservati camminare vicini, come prima sedevano vicini, nessuna velleità voyeristica, solo un affetto generazionale, un po' di sana invidia, la nostalgia di qualcosa che non mi è mai capitato, il compiacimento che deriva dal rendersi conto che il mondo non vive di soli maranza, influencer e lobotomizzati e che forse la mia pensione ha ancora qualche chance di essere pagata.

Non sono totalmente d'accordo sul fatto che scienza delle costruzioni sia più interessante delle riclassificazioni a valore aggiunto, soprattutto se il valore aggiunto è tanto, ma se lo dice Sofia forse è vero, dovrò riflettere anche su questo.

Piove, il quotidiano ha inghiottito anche me, devo entrare in ufficio, è giunta l'ora, prima di abbandonarli con lo sguardo non sono riuscito a sussurrare tra me e me: “in bocca al lupo, in bocca al lupo per oggi, ma soprattutto per domani, anche per dopodomani e continuate a stare vicini che siete…. siete belli si, siete proprio belli belli, fidatevi di me".

Sofia si è voltata un attimo, ha guardato ed ha sorriso, o almeno credo, lui le ha detto: "dai andiamo che è tardi" e le ha preso la mano.
Hanno iniziato a correre…



Storie da bar

Giorgia ha 48 anni ed un accento misto tra l’emiliano e Zattaglia Nord, alta val della Sintria, la conosco da un po’, da quando ogni mattina vado a prendere il caffè dal Gamberini.
Il settimo giorno anziché salutarmi: “Ciò ma te non ridi mai?”
E io le dico “Ma non dovresti dire soccia?!”.
Da lì ha iniziato a raccontarmi la sua vita, un pezzo alla volta, tra un cappuccino e un the alla menta tiepido ma non troppo.
Mi ha confessato che anche lei ride poco, e non perché “ho i denti brutti” - ci ha tenuto a sottolineare - ma perché non c’è niente da ridere.

“Se ti svegli ogni mattina alle 4.30 e devi preparare la colazione a Camilla senza fare troppo rumore, e devi lavarti denti-faccia e fare bidet al buio perché l’appartamento è piccolo e il bagno confina proprio con la camera di Camilla e la porta è a vetri, e mentre prendi il primo caffè (sempre al buio) scrolli le foto del padre di Camilla (nonché tuo maledettissimo ex) che su IG posta mentre sta a Bangkok con quella strafottutissima Ludmilla di anni 29 che mi dici? Poi uscita, dopo aver baciato Camilla sulla guancia guardandola dolcemente per 32 secondi e dopo aver chiamato la zia per sapere a che punto è ché non è ancora lì, devi fare 780 km a piedi perché tu  non hai il garage e la sera prima hai parcheggiato a Vergato, beh parte in salita ammettilo e questo già non ti stimola il sorriso”.

“Va beh, ma la guerra? Pensa alla guerra, che dovrebbero dire loro?”. 
Giuro che l’ho detto, lì con un mini bombolone alla crema tra le mani, non so da dove mi sia uscita a 52 anni ancora nemmeno compiuti.
Lei mi ha guardato perplessa: “ti facevo più originale”.
Touché.

Il giorno dopo mi ha raccontato del suo ex. 
Negli ultimi 5 anni, Camilla ne ha 12, l’ha presa e rilasciata tre volte, anzi “mi sono fatta prendere e rilasciare tre volte”,  la prima per una più “ribelle” ha scoperto poi, la seconda era una più “affine” e la terza una più giovane e con le tette più grosse senza virgolette.
Ogni volta è tornato, ogni volta non mi ha promesso niente, ogni volta se n’è andato quando già la nuova storia era iniziata.
(E io non posso non ripensare a ciò che un tempo mi disse un saggio:  “ma te ti sei mai andato a comprare un paio di jeans nuovi in mutande” - nda).

“E perché l’hai ripreso?!”
“Mah cosa vuoi, che fossi innamorata?!”
“A me lo chiedi? Ti conosco da ieri e pure di vista”
“Ma forse all’inizio lo ero, forse pure dopo la prima e la seconda, magari anche dopo la terza…”
“Sono tre, quindi sei ancora innamorata?!”
“No, se ci penso dopo la terza non più, ma non per quello ma perché mi sono resa conto di chi avevo davvero di fronte”
“E chi avevi?”
“Uno coglione. Un coglione incapace di stare solo, di amare davvero, un racconta balle, un insoddisfatto cronico, un narcisista che trovava piacere nella mia ossequiosa venerazione di cui non riesce a fare a meno ma che in fondo detesta. Uno che non mi ha mai detto la verità tutta in una volta, che ha sempre lasciato che la scoprissi io da sola, da amici, da conoscenti, per caso. Un codardo.”

Rumori di sottofondo.
 “Allora il mio caffè…”
“E un attimo non vedi che sto parlando?!”…

“Ah, capisco”
“Ma non so se capisci, forse mi giudichi, ma mi rendo conto che è normale.”
“Ma sinceramente non giudico affatto, ascolto e credo di capire”
“In realtà l’ho fatto quasi sempre e solo per Camilla, al novantotto per cento direi, si novantotto”
“E l’altro due per cento*
“Eh l’altro due per cento per me… ciò (è spuntata la vena di Zattaglia). Avevo voglia di crederci, avevo voglia di vedere quello che non c’era, avevo voglia di pensare che il suo non fosse solo un opportunismo d’accatto ma un qualcosa di non ancora compreso fino in fondo, che il tempo avrebbe chiarito. Tutte cazzate. Lui, e non ti dico come si chiama perché non voglio più pronunciare il suo nome, mi ha usata, una tappabuchi, oh una che lo faceva godere eh, ma null’altro. Una tappabuchi part time, da tenere lì finché non fosse sbucato qualcosa di più stuzzicante.”
“Sei severa”
“Severa un par di balle, sono realista. Perché voi uomini siete così, dei paraculi”
“Oh non iniziare a generalizzare che mi fai girare le scatole”
“E io me ne frego, ti ho raccontato un cliché, la storia di Giorgia è la storia di mille donne, e forse di tre uomini, noi non siamo così”
“No è vero, a volte siete peggio, molto peggio”

Se non avessi l’abitudine di alzarmi molto presto non avrei mai avuto occasione di conoscere la storia di Giorgia, da Gamberini devi arrivare prima delle 7.30 altrimenti la folla ti assale, e quando la folla assale anche Giorgia deve concentrarsi sui caffè.

Da allora la osservo ogni giorno, non è male, gli occhi sono grandi, tristi, neri, profondi, spenti, si illuminano solo quando dice “Camilla”; le mani sono curate, lo smalto rosso, i capelli lunghi, le labbra morbide (all’apparenza). Non sorride, non sorride mai, ma è gentile, non gentile per finta al limite dello smieloso, gentile vera, perché è così. 
È ancor innamorata di quel suo ex che nemmeno nomina, e se beccasse Ludmilla per strada sono certo che la stirerebbe con l’auto, anche se sa che la colpa non è di lei ma di lui, ma schiacciare Ludmilla con l’auto le darebbe comunque massimo godimento.

Due giorni fa, a tre mesi più o meno dal primo pezzetto le ho chiesto: “Ma perché hai raccontato tutta questa roba a me?”.
“Perché tu non sorridi mai, te l’ho detto, e non fai il piacione”
“E che c’entra? Alle 7 di mattina sto pensando ai dazi di Trump, come potrei sorridere? E tantomeno fare il piacione?”
“La tua aria seriosa mi ha fatto capire che sai ascoltare”
“Al bancone del ba?r”
“Sì al bancone del bar”
“Giorgia promettimi una cosa però, stavolta Andrea mandalo a fare in culo davvero”
“E come sai che si chiama così?!”
“Ce l’hai tatuato sul braccio….”



Se non è pronto che soccorso è?!

“Il 112 sta nel 118 1 volta e  resta 6… chiamo? Vado? 6 per 6 è 36 resta 0? No, non resta niente se c’è per! Adesso mi siedo, passa… si passa…. se non passa  magari vado… sudo… sudo freddo…. 34, 35, 38,48, 52….”

Giulio quando qualcosa non va fa di conto, i numeri lo aiutano a razionalizzare, a distrarsi concentrandosi su altro, lo fa da sempre, fin da ragazzino, glielo aveva insegnato indirettamente John Lazzano, un italo-napoletano-newyorkese che si trasferì in Romagna all’inizio degli anni ‘80 anziché in Ohio, probabilmente per rompere le balle a Giulio, e lui per distrarsi iniziò a contare, contava i minuti che mancavano al suono della campanella, così si sarebbe finalmente liberato di quel buzzurro fino al giorno dopo. 

E pure quella sera per fermare la testa che girava e il respiro che si faceva affannato provò con i numeri, Giulio era solo, contare non serviva ed essendo in prossimità del PS entró.

“Dica?!”

“Mmm, prima mi siedo un attimo e poi dico… “ buio e orecchie fischianti.

Si svegliò poco dopo, cloruro di sodio allo 0,9% d’ordinanza, barella lato medicina d’urgenza, stordito ma vigile, oppure vigile ma stordito, fate voi.

“Scusa infermiera carina voglio andare a casa, posso?”

Lei con una felpa blu Emergenza, aperta sulla classica casacca bianca a V con bordino rosso, che lasciava intendere una terza abbondante su cui lo stetoscopio poggiava rilassato, osservava Giulio con un sorriso gentile, gli occhiali neri, i capelli lisci. Federica il nome sulla targhetta, matricola ho14431, o almeno a Giulio così parve.

“Veramente è un pelino presto, dobbiamo ancora capire bene bene che succede, hai così fretta di abbandonarci?!”

“Sexy il tu della Federica” pensò. 

“Mah…. è tutto passato, sei molto simpatica, mi tratterrei a lungo con te, ma devo rientrare, ho l’auto col parchimetro in esaurimento!”

“Ora aspettiamo il dottore e un paio di esiti, hai avuto una crisi vagovasale, stai sereno e rilassati un pochetto, poi chiamiamo qualcuno che ti riporti a casa”

“Federica ho la patente, giuro!”

“Ma non puoi guidare!”

“Non sono in stato di ebrezza, ho bevuto solo caffè!”

Sorrise. Intorno era un formicaio.

Nella seggiola accanto Antonella, una mano fasciata, un occhio nero e un’escoriazione sulla guancia sinistra, era caduta con la bici a pedalata assistita salendo lungo uno sterrato qualsiasi in provincia di Forlì Cesena.

Come lo so? Lo raccontava a tutti, infermieri, pazienti, portantini dell’elimedica, Giulio, Federica, il parroco passato in PS per la benedizione pasquale.

Sulle poltroncine plasticate della sala d’attesa Eros, il figlio del medico anestesista, la madre era uscita con i colleghi d’ufficio per una cena aziendale, il padre - reperibile - era stato chiamato in turno, l’alternativa era abbandonare l’Eros per strada o portarlo in ospedale con lui. Delle due l’una, optò per la seconda in attesa dello zio Christian, desiderato al più presto per il recupero del bambino. 

Poi un signore agitato con problemi di prostata, un turnatore mica da ridere bagno-sala d’attesa-bagno, il problema però non era lui, a parte la necessità ripetuta di fare pipì il resto tutto a posto, era lì per Ancilla, la moglie, aveva fatto un’indigestione di cotiche e fagioli, lo stafff medico stava decidendo  tra lavanda gastrica o Citrosodina masticabile, andarono sul cloruro di sodio 0,9% (buono per tutte le occasioni evidentemente) e vigile attesa.

Poi Fulvio e Carlotta, i due della sala gessi. Hanno una storia anche se lei è sposata, si capisce perfettamente da come si sfiorano sistematicamente le mani ogni volta che entrano ed escono dall’ascensore. La loro potrebbe essere una relazione un po’ spigolosa, ma certamente duratura, sono fatti l’uno per l’altra, lui il gesso lei la garza, lui stampella lei seggetta, lui calcio e lei osteoporosi. Li ho visti limonare all’uscita vicino alla colonnina di ricarica Eni Plenitude (nda), erano belli, lei di più.

Infine Enzo, vero nome Moammed, non aveva nulla ma aveva freddo, e lì in PS si sentiva a suo agio. Parlava con tutti, rideva con tutti, voleva giocare a dadi con Eros, ma temeva che in caso di vittoria il padre non avrebbe pagato il suo debito per circonvenzione di minorissimo e anzi lo avrebbe pure denunciato alla Polizia di Stato.

“Dottore allora io vado?!”

“Ma Giulio, ma dove va d solo? Ha i battiti a tre come le formiche!!”

“Ma dottore passo al bar, caffè doppio e via si sale almeno a 50, e io sono già in linea”

“Guardi Giulio è un errore, lei si assume ogni responsabilità”

Un’ambulanza stava salendo la rampa a sirene spiegate, tutto intorno agitazione e pronti all’azione, un incidente tra due auto, tre feriti, uno abbastanza grave ma non in pericolo di vita, la fidanzata illesa piangeva e lo guardava, lui le stringeva la mano, qualche graffio sul dorso dava alla scena un qualcosa di delicato.

Giulio approfittò della confusione e prese l’uscita, 175 euro di ticket e un senso di spossatezza lo accompagnarono fino al parcheggio, si ricordò allora che l’intermezzo ospedaliero gli aveva fatto saltare il concerto,. A due passi da lui stava uscendo Federica, in abiti borghesi ancora più bella, salutò Giulio con un sorriso, lui la guardò allontanarsi dal lato opposto, ad attenderla un’auto di grossa cilindrata, dalla distanza non riusciva a  vedere nitidamente, ma gli parve di riconoscere il guidatore…. ne era quasi certo, con quel ciuffo laccato poteva essere solo lui… direttamente da New York (quartiere Little Italy) il mitico John Lazzano….. un nome una garanzia: uno scassa balle sesquipedale.




Buonanotte Mario

Alle 7.45 lui si sveglia, ogni mattina, sta lì in Galliera, duecentotrentotto passi e dieci scalini dopo la Drogheria della Pioggia.

Come si chiama? Non lo so, ma ha la faccia seria, dignitosa, fiera e a me piace chiamarlo Mario, come Mario Merola, però magro, senza capelli e con l’accento marchigiano, di poco fuori Ancona, Agugliano direi. Anzi sono certo.

Ma avrà freddo? Forse sì, forse no, si protegge, sacco a pelo, un piumone a fiori azzurro panama, una valenzana anni settanta ( che oggi nessuno la chiama più così), un giubbotto verde, una berretta blu, un pantalone marrone e un sacco di cartoni.

No cartone, cartoni. Cartoni da imballo, cartoni che hanno protetto lavatrici, forni a microonde, una Tv 62000 pollici Samsung Panamera, un tostapane, una lavastoviglie (credo abbia fatto amicizia con il Direttore del negozio di elettrodomestici di via vattelapesca, poco distante da lì), un armadietto dell’Ikea Kleppstad (lo so che guarderete se esiste, ve lo assicuro esiste!), un toner per stampanti Hp multifunzione, sopra una scritta nero pennarello: “ESAUSTO”. Ah il toner è esausto? Chiediamo a Mario che dice…

Se fossimo a Parigi lo chiameremmo clochard, ma siamo qui, a due passi da San Petronio, va bene pure barbone in fondo, anche se la barba è ben rasata.

Qualcuno lo chiamerebbe invisibile, e ci farebbe su un pippone buon buonista che la metà avanza, ma invisibile non è. Passa un sacco di gente di fronte a lui, passo io, passa la signora con gli occhiali neri i capelli neri, il trolley Mandarina nero, le scarpe nere i pantaloni neri e qualche volta la gonna nera con le calze a pois, bianchi i pois, nere le calze. Passa Gisto il fattorino della GLS; passano sei muratori marocchini fastidiosi come il fango che fumano come i turchi e urlano come Olga, la cugina di Orlando, ‘na rompicoglioni di Boncellino che lavora alla Coop.

Passano tutti, passano tutte. Tutti di fretta, tutte di fretta. Pure io. Tutti vediamo, tutti guardiamo, anche Gisto, perciò non è invisibile, questo è certo, è lì.

Ecco appunto, perché? Perché è lì?

Mario è salito da Agugliano provincia di Ancona per lavoro, per amore e per fare fortuna, era il 2004, pioveva ma lui era felice. Oddio felice, se non altro sereno, che è qualcosa che comunque assomiglia a felice. Sono passati 21 anni e ha perso l’amore, ha perso il lavoro, ha perso la fortuna ma non ha perso la serenità.

Lo si vede da come dorme, e da come risistema i cartoni, anche quello esausto del toner, pare quasi voglia consolarlo: “suvvia esausto, la vita non è poi così male, fa schifo sì, ma non tanto, un pochino, le mattine di novembre soprattutto, poi a giugno migliora, fidati”.

Questa mattina Mario puliva le colonne del colonnato con l’acqua minerale, toglieva il guano dei piccioni, si capisce che ci tiene a lasciare in ordine, in fondo lui li ci vive, almeno un po’, “che cosa caghi cosa piccione maledetto?”

Mario non appende cartelli tipo “ho sei figli, tre mogli, un cane e due Mercedes bianche a cui fare il pieno, per favore aiutatemi”, almeno non li, lui è dignitoso, l’ho già detto, tanto che perfino io che sono scettico-cinico-distratto, e qualcuno direbbe “fascista carogna ritorna nella fogna” anche se non è vero, sono tentato di fermarmi e: “Hei Mario, andiamo a prendere un caffè?”.

Sono tentato ma non lo faccio, perché? Non lo so, ci penso da settimane, ma non lo faccio. Mi giustifico pure passando oltre, mi giustifico con me stesso e con la signora con gli occhiali neri: “ma se poi il caffè non gli piace? E se è russo? E se ha ancora sonno? E se puzza? E se poi s’incazza? Eh ma se non chiede niente, chi sono io per dargli qualcosa? Ma poi qualcosa cosa? Un caffè? E se è un serial killer di Ostuni che ha ucciso ventiquattro vergini tra il 1999 e il 2002, altro che Mario di Agugliano?

Non lo faccio e passo oltre.

Passiamo tutti oltre, passano oltre anche quelli che fingono di rallentare e gettano due monete, perché in fondo noi siamo qui e Mario è lì, pure con due monete in più che servono a pulire la coscienza del lanciatore più che a beneficiare il tapino,  e forse è pure giusto così, o forse no, che ne so io chi è Mario e perché è lì?! Le mie sono fantasie, fantasie di un osservatore solitario, di uno che passa, guarda e va oltre, perché è tardi, perché ho fretta e da Gamberini c’è sempre la fila a quell’ora, ma ne vale la pena… andare da Gamberini dico, lo dico da sempre io, sì proprio io: “se mai un giorno dovessi lavorare a Bologna io il caffè lo prenderei da Gamberini… che i baristi con la cravatta e le maniche di camicia fanno atmosfera”.

Non sono invisibili, sono solo pezzetti di un mondo buffo che non serve spiegare, perché è fatto così anche senza di loro e anche senza di noi.

Fossimo a Parigi li chiameremmo clochard…. siamo a Bologna… va bene pure barboni.

Buonanotte Mario.