Ma non ti imbarazza cenare solo?

“Ma non ti imbarazza uscire a cena da solo?!”

Glielo chiese così a bruciapelo che non poté che risponderle altrettanto velocemente: “Ma no, sinceramente ora non mi imbarazza, non mi piace eh, sia chiaro, ma no, non mi imbarazza, non più… qualche mese fa magari sì, oggi mi sembra di nuovo normale”

“Scusa ma se non ti piace perché lo fai?”

“Beh mangiare è un bisogno primario, senza non potrei sopravvivere”

“Fallo a casa no?”

“Non cambia molto, sempre solo cenerei, e magari lo farei pure in mutande, che mi sembra disdicevole al limite del trasandato, e sinceramente trasandato è peggio di solo”

“Non ti ci vedo tu che ceni in mutande”

“Perché non sei mai venuta a cena a casa mia”

“Non mi hai mai invitata”

“E non lo farò”

“Stronzo. E perché? Guarda che sono di compagnia e porto sempre qualcosa da bere”

“Perché da me, oltre a me, non cenerà più nessuno. Al massimo ti invito a merenda”

“È una nuova regola? 

“È una nuova regola”

“Mi sembra una cagata, nemmeno i tuoi amici inviteresti?”

“Loro sì, e se ci sono loro puoi venire anche tu, ma ho solo quattro sedie, se ci sono tutti uno di voi dovrebbe portare una sedia da casa propria, o dovremmo rubarla all’enoteca in fondo alla via, o quattro stanno a tavola e uno (che non sarei comunque io) sul divano”

Cenare in uno non è imbarazzante, è semplicemente brutto, e tra le altre cose ti senti un po’ egoista, soprattutto se il locale è pieno e la coppia di turno se ne sta lì ad aspettare il tavolo, in piedi, tra l’ingresso e l’attacapanni, sempre a spostarsi per fare entrare i prenotati, o per far passare i camerieri che devono servire quelli seduti fuori. In alcuni locali l’attesa è di fianco al bagno, e lì è peggio.

E tu, seduto, a sorseggiare sangiovese, a pizzicare formaggi, a leggere un po’ il menù e un po’ il libro che ti porti appresso, poi il caffè, il Vermut… insomma ti senti odiato, odiato da lei che non sa portare il tacco dodici e fatica a stare ferma, odiato da lui che ha fame e sa che lei si spazientirà, sia perché non ha prenotato e questo gli verrà rinfacciato per tutta la sera, sia perché se a lei fanno male i piedi poi diventa intrattabile. E allora tu, che sei buono e comprensivo, inizi a strafogarti, finisci il calice di vino alla stessa velocità di un alpino con la cirrosi, salti il dolce e chiedi un caffè ristretto che si fa prima sia a farlo che a berlo.

Quando poi sarà il momento di alzarsi, pagare il conto e uscire, loro non te ne saranno grati, ti guarderanno sottocchi, con quell’espressione livorosa e superiore di chi pensa: “ma guarda sto sfigato”, tanto che la voglia di sedersi di nuovo e ordinare un GinTonic con le patatine fritte diventa quasi insopprimibile, ti assale, ti fa accelerare i battiti, e non lo fai solo perché il cameriere ha già sbarazzato e le patatine da aperitivo ti fanno cagare, sopratutto dopo aver mangiato una selezione di fossa con le confetture.

Al che ti porti fuori dal locale, accendi un sigaro anche se non fumi, indugi qualche minuto prima di abbandonare tutti, e per un attimo li guardi. Se ne stanno seduti uno di fronte all’altra, lui al posto che fino a poco prima era stato il tuo, sguardo fisso sul menù, nessuno dei due apre bocca, nemmeno il più classico del “tu che mangi?”, e quando Fabio arriva e chiede “avete deciso?”, lei ordina un antipastino vegano, lui un castrato con i pomodori confit,  poi due calici di bollicine, e appena restano soli si lanciano sui rispettivi smartphone. 

E tu non puoi far altro che pensare: “Cazzo, potevo ordinare anche una sambuca baby ghiaccio e mosca a sto punto”.

Non va sempre così, non tutti vivaidDio sono soli in coppia, esistono pure quelli che stanno insieme davvero, che si guardano negli occhi sorridendo, che si tengono la mano, che si raccontano a vicenda, che si sbaciucchiano non appena Fabio scompare in cucina a portare la comanda ad Antonio lo chef, che sono felici di essere lì in due e non in uno più uno, che ridono di gusto, che si prendono un po’ per il culo a vicenda, che brindano col ciocco, che “lo sai che è bello essere qui insieme, dopo facciamo l’amore?!”. Esistono sì, mi è capitato di incontrane alcuni, soprattutto a primavera.

“A primavera (che poi era solo maggio -nda) il mondo è bello e invitante di colori e ancora sugli alberi ci sono solo fiori..”, cantava Cherubini, io dico che pure ad ottobre il mondo può sembrare bello, a luglio meno, anche se queste sono considerazioni da meteoropatici, non semplici da comprendere per le persone che non sanno (cioè tutte tranne due).

“Ok a casa tua no, ma a cena fuori mi ci porti?”

“Oh sì, volentieri, sono piacevole sai per passare una serata!”

“E se poi ci provo?”

“Faresti un errore, un errore piuttosto inutile, soprattutto per te”

“E perché? Sono piacevole dopo cena”

“Certo, non ne dubito, anzi ne sono sicuro, qualcuno apprezzerà!”

“Allora cos’è, non ti piaccio?”

“No, soprattutto non mi piaccio più io, è diverso”

Si sta alzando il vento, tutto attorno poco fa è stato un macello di temporali e grandine, meglio rientrare velocemente che stare qui a scrivere minchiate, meglio farlo prima che la tormenta arrivi pure da ste parti, ma le cicale stanno ancora a frinire nonostante l’ora che si sta attardando, venere si è messa a luccicare sotto ad una luna che è ridotta ad uno spicchio, non è male.

“Poi un giorno me lo racconterai perché non vuoi più nessuno a cena da te”

“Ma non c’è nessuna spiegazione da dare, semplicemente non si può, è occupato”

“Da chi?”

“Da nessuno, ma un nessuno talmente ingombrante che non lascia spazio a nient’altro”



I dettagli, la morale, i limoni.

Caldo faceva caldo, molto caldo, direi caldissimo, troppo caldo pure per fare l’amore (questo è ciò che sosteneva l’Alda con il Giorgio, i signori del cortile interno lato vicolo, non credo fosse questa la vera ragione della ritrosia dell’Alda però chi sono io per sostenere il contrario?), troppo caldo financo per lamentarsi, sembrava luglio inoltrato, sembrava estate, sembravano le 23.03 e ancora si boccheggiava, come i pesci quando nuotano in pochi centimetri di limo.

La mia nuova vicina di casa chiacchierava con Alexa, lo faceva in inglese, anche se credo sia polacca (la vicina, non Alexa), un dialogo serrato, un po’ metallico a dire il vero, ma sembrava tutto sommato una conversazione amichevole, io personalmente non ci capivo una mazza, ma il mio rapporto con l’inglese è ostico da sempre, e sia chiaro che non è colpa di Alexa ma solo della mia idiosincrasia per la lingua di sua Maestà (cazzo questa avevo voglia di scriverla da almeno quindici anni!!).

Sulla via di fronte passeggiavano ragazzotti testosteronici che muovevano da e per il Rione Rosso, la settimana è quella del Palio, mi è sempre piaciuto un sacco questo periodo, la città e le persone si colorano, rosso-verde-nero-giallo-durbecco (ma che colore è durbecco non l’ho mai capito🤣), qualcuno lo incontri anche inondato di toni fucsia, ma lo fa per vezzo o anche solo per partito preso, molto LGBTQ plus, anche se in realtà non se lo fila nessuno. Quest’anno non andrò al Palio, mi spiace molto, ma fa “troppo troppo”, non sono pronto.

Loris e Jenny si sono messi a limonare di fronte al portone di casa mia, sedicianni (volutamente tutto attaccato) di saliva e inesperta impazienza, ma con un sacchissimo di energia e voglia di stravincere. Io li stimo molto, però se magari stravincessero due metri più a destra riuscirei ad uscire di casa senza doverli far rimuovere dai vigili. Dopo sei minuti e otto volte  “scusate permesso dovrei uscire” lei mi nota, alza il sopracciglio sinistro, arrossisce e divincolandosi per un attimo da quella presa adolescenziale: “oh scusi signore..”.

Non riesco a non pensarlo: “Signore?! Signore?!!?!?! Ma signore un par di balle!!!!”. Lo penso ma non lo dico, perché in fondo c’ha ragione lei, non per l’età eh, sia chiaro, ma per i modi. Un lord, anzi un piccolo lord come diceva qualcuno, soprattutto fuori, ed a pezzi in realtà, un pezzo sì ed un pezzo no, ma fa niente, sempre di lord si tratta, almeno credo.

Una volta uscito è un attimo e mi ritrovo in corso Matteotti deambulante, o deambulando🤔… insomma andavo per di là, la via porta ancora i segni del disastro di maggio, segni profondi e cattivi, li senti (non li vedi soltanto, li senti!) nonostante la notte avvolga tutto l’intorno… … ad un certo punto incontro un cane che porta a spasso la sua padrona, sudata peggio di un bevitore di Vernelli alle cinque del pomeriggio; poi è la volta della sciroccata con le tette rifatte - almeno tre taglie oltre la media della città - che parla costantemente in viva voce a qualsiasi ora del sempre, incazzata, abbronzata, volgare, brutta, tatuata e con i congiuntivi che sono un optional, che uno poi si chiede:  “Ma con chi diavolo parla? Che anche lei sia un’amica di Alexa?!”.

So che a prima vista questi dettagli che vado raccontando possono apparire inutili, quasi superflui e forse ridondanti, ma in realtà sono i dettagli che fanno l’insieme, il tutto, il quadro, noi stessi siamo una somma di dettagli, pensateci bene. 

E poi i dettagli fanno “la morale della storia”, anche di questa, e voglio spiegarvela (brevemente) che altrimenti pensate che io racconti balle.

Limonare è bello, non solo a sedici anni e non solo davanti ai portoni di case altrui; fate l’amore anche quando fa caldo, perché pure fare l’amore è bello, a volte (rare) perfino troppo bello che poi non guarisci più; il cane fa compagnia e ti porta a spasso volentieri; quando passeggiate non parlate al telefono in viva voce che alla gente non gliene frega una minchia se “lei tiene le corna e gli sta bene”; i congiuntivi sono sexy; le polacche parlano l’inglese meglio di me; Alexa esiste e vive in via XX settembre, Siri è sua cugina; le tette grosse oltre la media stroppiano; anche se non andrò al Palio tiferò Giallo.

Ed in chiusura dico che scrivere rilassa, un po’ come correre, anche se a volte (non questa) può essere molto faticoso, sempre un po’ come correre. 

Il difficilissimo sarebbe scrivere correndo, prima o poi ci proverò.



L’Indifferenza

Qualcosa di simile gli era già successo, o almeno all’inizio ne era convinto, e decise quindi di reagire allo stesso modo, avrebbe riempito lo spazio e il tempo di futili orpelli, con tutto il rispetto per gli orpelli sia chiaro.

Ma niente, stavolta proprio non funzionava. Non riusciva a staccare la testa nemmeno per un attimo (la testa🤔). 

Provò con Gloria, alta, sinuosa, moderatamente simpatica, quell’atteggiamento zen tra il distaccato ed il “ho vissuto troppo intensamente ora devo riflettere”, carnagione chiara e occhiale da sole scuro. Nulla, dopo il secondo aperitivo sciorinò il più classico dei “dai, sono stato bene, ti chiamo io, ok?”. Sono passate sei settimane, Gloria nel frattempo si è sposta con Giorgio, conosciuto due giorni dopo l’ultima uscita, lui ancora deve chiamarla. Ad un amico di lungo corso ha dichiarato di non averlo fatto per via di un problema di connessione alla rete TreWind, l’amico ha sollevato dubbi apparentemente fondati.

Poi fu la volta di Alessandra, capello corto, culo rotondo, accento leggermente sbavato verso sud, sorrideva sempre, la invitò convinto, “questa volta ci riesco” pensò, a metà della cena finse una colica renale, “scusami ma dobbiamo rientrare, non mi sento niente bene, perdonami, ti richiamo presto”. Si accorse tre settimane dopo di aver perso il numero, lei nel frattempo lo aveva bloccato su ogni possibile sistema di messaggistica social, credo fosse risentita per via di un diverso concetto di “presto”.

Con Gioia fu diverso, ci mise tutto l’impegno necessario, almeno in partenza,  prenotò, si profumò, fece il bidet, aprì l’auto per farla salire, si finse interessato alle teorie complottiste e ai fenomeni delle scie chimiche, ripensò a quello che gli aveva detto il Capitano due sere prima (“non fare il busone” - nda), poi si accorse di non ascoltarla mentre parlava, quando lei ad un tratto spazientita lo apostrofò: “allora, mi rispondi?”. Lui non aveva idea né di cosa gli avesse chiesto né perché gli stesse facendo così tante domande. Fini che non fece nemmeno in tempo a “ti chiamo io”, che lei aveva già sbattuto lo sportello, il portone d’ingresso, ed una volta dentro casa ed aperta la finestra della sala da pranzo rivolta verso la strada urlò: “Gioia, mi chiamo Gioia brutto stronzo, non Agata”. 

Poi si aggiungano le innumerevoli prese di distanza (le chiamo così ché sfanculamenti fa troppo trash), di tutte quelle con un QI superiore alla media che capita la situazione fuggivano prima ancora di iniziare. Una di queste, si narra, abbandonò l’aperitivo per quella che doveva essere una capatina in bagno, non fece più ritorno, fu vista passeggiare mano nella mano con il primo che passava di lì, fuori dal bagno, fuori dal locale, in un’altra città. Alle amiche più care disse: “va bene tutto, ma così proprio no”. 

Effettivamente il dubbio che non fosse proprio come le altre volte iniziò ad insinuarsi in lui in maniera sempre più prepotente.

Ripercorse mentalmente la strategia che adottò in quei dei quaranta, ripensò a Dorotea, che dalle due alle tre di notte dei giorni pari lo accoglieva con grande piacere; si ricordò di Claudia che odiava i posti troppo rumorosi e voleva sempre stare a casa; poi Titti, romantica e paziente, probabilmente pure troppo; e ripensò perfino a Giuseppina, guasta come lui, alla ricerca di distrazioni come lui, persa come lui tanto che nessuno dei due ricorda esattamente - a distanza di dieci anni - chi doveva chiamare per ultimo.

Non trovò la risposta, la risposta  al dubbio che sta al centro di tutto il racconto intendo, quel “ripercorso” gli lasciò anzi un abbondante amaro in bocca, si sentì un po’ patetico, quasi ridicolo, si guardò perfino intorno per il timore che qualcuno si fosse accorto del suo disagio.

Sapeva da sempre che ciascuno di noi è spesso il “piuttosto che niente” di qualcun altro, lo era stato, lo erano state per lui, lo era ristato, ohhh se lo era ristato, ma non era nemmeno quello a creare la difficoltà, era piuttosto il senso di “vuoto” mai provato che quella situazione gli provocava, una roba tipo il riso con la scatola che si rompe nel carrello della spesa un lunedì pomeriggio alle Cicogne.

“Vuoto” figlio del più potente  tra i sentimenti, l’imperatore dei sentimenti, il Papa, il generale, il Sommo, il super comandante, insomma quello: l’indifferenza.

L’indifferenza ha due facce, esiste quella finta-ostentata-artefatta-strategica, tipo quella di Fanny Chenal nei confronti di Max Skinner fino ad inizio del secondo tempo, e l’indifferenza punto.

L’indifferenza punto è ciò che di più vero e sincero una persona possa provare, semplicemente la si vive (o la sí subisce dipende dal lato in cui ci si trova), ci si dimentica di ciò che non è mai davvero stato, si cancellano le finzioni costruite-artefatte, ci si libera delle scorie, degli incidenti di percorso, dei traghettamenti e dei traghetti. L’indifferenza punto è endemica, salvifica, inevitabile. L’indifferente punto vince sempre e vince soprattutto le gare che manco sa di competere. L’indifferente punto non vede l’ora di diventarlo.

È questo “il davvero diverso” rispetto alle altre volte, il vuoto dell’indifferenza punto, l’indifferenza che può “provare” solo chi ad un tratto, tra sera e mattino, senza volontà sia chiaro, si accorge che nulla di quanto credeva (o probabilmente immaginava solo di credere) è mai esistito, e può “subire” solo chi invece ha davvero troppa fantasia semplicemente “per essere” reale nella vita di un’altra.