Oibò l'attesa...

Oibò la noia.

Sono qui … qui in sala d’attesa … qui ad aspettare il mio turno … qui di fianco la finestra ... , e spero che i puntini di sospensione di cui ho abusato insieme ai "qui" trasmettano il senso profondo del tempo che scorre, lo spero davvero di cuore.

La sala non è troppo diversa da tutte quelle che ho frequentato fino ad oggi: quel qualcosa di azzurro a fare da sottofondo, riviste di tre anni prima, opuscoli inutili, battiscopa rovinato, sedie in finta formica, leggero velo di polvere agli angoli, chiacchiericcio biascicato di sottofondo, la scosciata con la longuette senza calze con lo spacco spaccato che scavalla e riaccavalla ogni sette minuti, poi la tipa col tono di voce sette ottave sopra la media che dice cose scontate-inutili e fastidiose, ha gli occhiali, si ascolta quando parla ma non si capisce.

Il mio turno è quello dopo, e chissà perché il mio turno è sempre quello dopo, sono probabilmente troppo lento in partenza.

Di fianco a me una ragazzina/bambina, la conosco ma non so chi è, non ricordo “dove l’ho già vista”, forse è la figlia di un amico, non la saluto perché mi sembra triste ed assorta, o forse è solo annoiata ed incazzata, oppure ha sonno, comunque si capisce che non vuole essere disturbata e io l'accontento, sono rispettoso.

Passare tempo in sala d’attesa non sarebbe nemmeno male, certo c’è sala e sala, e ci sono con-salini più o meno piacevoli, e sedie più o meno comode, ma di norma riesci a farti gli affari tuoi e a pensare.
A pensare a cosa? Bah … a tante cose … all’amore ad esempio (dai tutti ci pensano all’amore – al proprio o a quello degli altri – e non dite che sono monotono ché lo sapete anche voi che è così), ma anche sulla bolletta dell’Hera si può riflettere, ché è sempre stampata su dieci pagine in carta riciclata, di cui nove sono illeggibili ed una minacciosa ti guarda incazzata in quel suo grigio a bordi gialli: “la bolletta scade il 24 agosto, pagala altrimenti muori”.

Conoscevo uno che in sala d’attesa era abituato a tagliarsi le unghie, a casa non lo faceva perché la moglie lo sgridava, la megera non sopportava quei pezzi di cheratina indurita sparsi sui mobili del bagno, s’innervosiva parecchio.
Oggi non so dove sia finito, il tipo delle unghie intendo, sicuramente sarà invecchiato, so che non è importante ai fini del racconto ma poveretto, a me stava simpatico e la moglie era davvero una scassa minchia.

Poi ci sono quelli che s’interrogano sul perché pure tu sei lì: “Che farà?” – “Che avrà?” – “Che sarà?” - “E’ tranquillo, ma dovrebbe?”.
Proprio si logorano, ti guardano, anzi no: ti squadrano. 
Cercano segni di pallore, di stanchezza, di tristezza, di disperazione, sorridono a labbra socchiuse, vorrebbero attaccare discorso, ci provano pure: “fa caldo eh??” – “ma sì è agosto cosa vuole…”.
Allora sospirano… e lo fanno a sospiri sempre più profondi, dei veri e propri sospironi, sì perché il sospiro a loro avviso genererà in te curiosità, vogliono che tu gli chieda “che succede?”, non perché gli interessi raccontartelo ma solo per ribaltarti la domanda : “Perché sei qui? Perché cazzarola sei qui? Dimmelo per Dio!”.

Poi ci sei tu, nel senso di “tu che leggi” ma anche di “io che scrivo”, noi insomma, non noi insieme, uno per volta, tu ed io, prima io e poi tu, o viceversa, e mi sono dilungato oltremodo per farvi capire il senso, sia chiaro.

E noi aspettiamo… e aspettiamo… e aspettiamo… tutti e due aspettiamo… (sta cosa dei puntini mi sta prendendo la mano).

La sala d’attesa è un po’ la metafora che racconta le nostre vite, perché in fondo noi si passa il tempo ad aspettare di poter entrare da qualche parte, così, quasi a caso, anche quando si è convinti ci sia una ragione.

Prima aspettiamo di nascere, nove mesi, qualcuno anche nove e mezzo, altri sette e un po’.
Poi aspettiamo di mangiare, poi di giocare, poi aspettiamo di crescere, poi aspettiamo di iniziare la scuola, poi aspettiamo di finirla, poi ti “aspetto fuori”, poi l’università, poi aspettiamo un lavoro, poi aspettiamo l’amore, poi il sesso, poi aspettiamo di sotto, poi i figli, poi aspettiamo la scuola dei figli, poi aspettiamo la mamma castana della compagna bionda di nostro figlio, poi aspettiamo la giustizia, poi aspettiamo la pensione, poi aspettiamo di ammalarci e anche di guarire
Poi aspettiamo che cosa non ce lo ricordiamo più, ma ci siamo abituati e quindi continuiamo ad aspettare.

Poi aspettiamo la felicità, sempre l’aspettiamo la felicità, è un’attesa trasversale questa, trasversale al tempo, anzi… aspettare la felicità è “il Tempo”, perché la felicità la si aspetta in continua, l’aspettiamo ieri-oggi-domani, futuro-presente-passato, prima-adesso-dopo, e non importa se spesso lo facciamo nei posti sbagliati, nei modi sbagliati e con le persone sbagliate, con o senza vestiti, prima o dopo cena, fuori e dentro il tempo massimo, lo facciamo e basta.
Siamo dei condannati all'attesa, dei potenzialmente felici in ritardo, dei cercatori, degli impazienti costretti, degli infelici ottimisti, dei sognatori … eh sì … per fortuna siamo così: dei sognatori che cercano di addormentarsi velocemente per poter sognare più forte di prima.

Oibò che noi quest’attesa, voglio entrare, è il turno mio …  “scusi signore … tocca a me, grazie”.

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