L’amore

“Luì quello che tu credi di provare non è amore. Tu non sei innamorato di lei, non può essere amore, tu non puoi amare l’assenza, l’inconsistenza, il niente, tu non puoi amare chi regala se stessa ad un altro. Non è amore la distanza, non esiste l’amore a senso unico, l’amore è uno più uno, non esiste l’amore da solo. L’amore è condivisione, è dormire nello stesso letto, l’amore è pensare insieme e raccontarsi a vicenda, l’amore è passione, è bere dallo stesso bicchiere, è proteggersi, difendersi, abbracciarsi, brindare in un têt a têt infinito, è scaramucce quotidiane, è viversi, è prima crescere e poi invecchiare insieme, è fuggire e perdonarsi, è pensare in due, preoccuparsi in due, consolarsi in due, baciarsi, scopare, avere voglia di farlo e poi rifarlo e poi ancora rifarlo e poi anche basta perché su Netflix parte la puntata numero uno della serie numero tre della stagione quattro che non si può far altro che sintonizzarsi insieme, l’amore è futuro, l’amore è progetto, progetti, vita, casa, saliva e sudore, involtini con il prosciutto crudo e due foglie di salvia cucinati sbronzandosi a tavernello. Lui tu non sei innamorato, sei solo fissato.”

“Agata non è così, anzi è così nel 99,973% dei casi, anzi nel 99,999999954789547% dei casi, quindi hai quasi ragione, ma hai dimenticato un pezzo, anzi il pezzo, il pezzo più importante, l’amore è desiderare la felicità dell’altro più della propria, l’amore è reincontrati per caso o giù di lì e sentire il cuore battere e ribattere esattamente come capitò quella volta che tu la incontrasti - sempre per caso - centoventiquattro settimane prima, l’amore è rivedersi dopo mesi e avere la sensazione che il tempo non sia passato niente. L’amore è riprendere dall’ultima frase detta tre giorni prima per il gusto di ascoltare come va a finire L’amore è un pensiero fisso, anzi è il pensiero fisso, il primo all’alba, l’ultimo al tramonto, il secondo a pranzo dopo aver scelto i cappelletti alla panna dal menù on Line, ogni giorno, ogni strafottuttissimo giorno, puntuale come le raccomandate di Equitalia. L’amore è bello, se non fosse che ti impedisce di dormire, di mangiare, di volare, ma ti consente di Vivere davvero. Si può amare da soli? Forse no, hai ragione, è una follia pensare di poterlo fare… ma in fondo solo se si è folli si può pensare di amare”

“Lui te sragioni”

“No, tranquilla non sragiono, semplicemente non ragiono, perché non serve la ragione per amare davvero, serve semplicemente l’accorgersi di non sapere fare altro, perché altro è banalmente nulla”



Alles gute

“Ma papà oggi è il suo compleanno?”

“Sì”


“Ah! E le farai gli auguri?”


“Non lo so”


“Perché non lo sai?”


“Perché non so se le farebbe piacere o se abbozzerebbe un grazie di circostanza come fai tu con Oriana quando ti incontra alla Coop e ti dice ohhhhh ma come ti sei fatta grandeeeeee e belllaaaa!”


“Ma che c’entra Oriana papà? A lei puzza l’alito di canfora, per questo ringrazio e scappo, altrimenti lei poi mi bacia e a me viene da vomitare!”


“Bhe anch’io vorrei baciarla!”


“Chi Oriana?!?!?!”


“Ma no scema!! Hai capito benissimo”


“Vabbè tu falle gli auguri, tanto di baciarla avrai voglia comunque pure senza auguri e dovrai tenertela in ogni caso, glieli farai a distanza wattsappabile così la tentazione resterà tale e non ci rimarrai male e anzi ne sarai felice”


“Chi io?”


“Si tu”


“E che ne sai?!”


“Ti conosco da quando sono nata, certe cose di te le capisco al volo, anzi lo so e basta senza davvero capirti fino in fondo, perché la ragione di tutto ciò per me resta un mistero, un mistero buffo tra l’altro… ma tant’è, e perciò falle gli auguri”


“… falle gli auguri…” fa presto lei a dire “falle gli auguri”, e come faccio? Le scrivo? E che le scrivo? La chiamo? E che le dico? Le mando una lettera? Una mail? Una pec? O un messo comunale come si fa con gli atti giudiziari più importanti?!


Falle gli auguri… va beh ok… auguri allora, sappi però che lo faccio soprattutto per me, fare gli auguri alle persone mi rende felice, me lo ha detto pure mia figlia, lei in realtà ha detto che fare gli auguri a te mi rende felice, ma lei non lo sa, è ancora piccola in fondo, vive nel suo mondo di YouTube, Temptation Island e Ammaniti perché “non ha paura”, una romantica con un piano B sempre in tasca, una mini donna alla ricerca del proprio posto nella vita insomma, e quindi crede di sapere tutto di me…. e invece…

Ma stavolta si, stavolta ha ragione lei, farti gli auguri mi rende felice, non auguri a tutti, auguri proprio a te, questo mi rende felice.


A te che sei lì, lì che stai a leggere distrattamente, velocemente, compassionevolmente, teneramente e nervosamente questo papiro elettronico, lì che scrolli sul video dello smartphone, indecisa se proseguire o meno, subissata da cento-mille-centomille messaggi come questo o più o meno come questo, un profluvio di auguri.


Te che in fondo la ribalta non ti piace, preferisci passare inosservata, un glamour silenzioso e pratico il tuo, come una regista della porta accanto con il piglio decisionista dei manager tedeschi e la fragilità nascosta di una framcesina in gita in Toscana a metà settembre, zona del Gallo Nero, media collina interna vista vigneto con piscina e pista di atletica a fianco ma con il Brufen nel beauty che non si sa mai.


Te che gli auguri - tranne quelli dei tuoi figli -  un po’ ti annoiano, come ti annoiano le cose che si ripetono uguali o semiuguali per più di tre volte di seguito anche non consecutive, avrei dovuto scriverti “alles gute” non auguri per catalizzare interesse, avrei dovuto scrivertelo su un cartello di cartone marrone sorretto da un paletto di legno giallo piantato all’alba nel giardino di casa tua, di fianco ad un girasole 🌻 grande e rotondo, tutto però fuori dallo sguardo indiscreto della tua vicina di fianco, ma non mi compete, non è il mio ruolo.


Te che pure diventare grande non ti aggrada, e ricordartelo un po’ ti fa rabbia, te che anziché concentrarti sul fascino travolgente che emani ti lasci distrarre dal contorno labbra due toni sotto la consistenza di una ventenne insapore.


Te che hai millecentoventiquattro cose da fare e “pure sto compleanno aveva da esserci? Non si poteva fare settimana prossima?!”.


Te che la bici, la corsa, il saluto al sole, il tritarifiuti intasato, gli schemi di matematica, il sudafricano che ha perso un container, l’andata e ritorno business class sti cavoli…. si fa andar bene la prima, gli addominali e poi le ripetute, la spesa alla Conad lanciata e non appoggiata nel carrello, il racchettone, il tennis, il paddle, la festa, Raffaella Carrà che la sua tomba non l’hai ancora vista, “cosa vuoi che stia a compiere pure gli anni!”


Te che “piuttosto che farmi gli auguri regalatemi un buono clinica per passare ad una quarta sostenuta”🤣.


Te che ancora io non so perché ti ho incontrata e soprattutto non so perché non sono scappato di corsa subito dopo, come dovrei fare ora…. e anzi sono stato proprio lì a insistere ché volevo proprio dirtela quella cosa lì che ti dicevo sempre, mannaggia a me!!

Si ecco te insomma, facciamo che ti faccio gli auguri e punto, quindi ecco prendi: “auguri”!!


“Papà allora? Le hai fatto gli auguri”


“Si”


“Bravo. E gliel’hai detta quella cosa che le dicevi sempre perché gliela volevi proprio dire?”


“Ancora??! Che vuoi? Che ne sai tu?!”


“Ok, non lo so, però tu scriviglielo, non dirmi se e quando lo avrai fatto se non vuoi, ma scrivile, fallo, solo quello, tu sarai felice almeno un po’, lei sorriderà il giorno del suo compleanno e gli auguri saranno più di più”


💬… “Ah scusa, sono quello di prima…. ho dimenticato di scriverti una cosa…. una cosa roba semplice… volevo dirti che… che sì insomma… si ecco volevo dirti che sei e resterai sempre la più bella, anche il giorno del tuo compleanno. Auguri più di più. Firmato Venanzio”





Racconto incompiuto, senza capo né coda, che non doveva essere pubblicato ma il destino ha fatto sì che fosse pigiato il tasto errato.

“Te sei diverso, uno su un milione…”, che detto da una donna alle 11.02 di un sabato mattino qualunque non so se lo si può considerare un complimento.

Diverso…. Venanzio d’istinto rispose: “purtroppo!!!”, e fu una risposta d’istinto ma anche convinta, quel diverso se lo portava dietro da sempre, lo sapeva, lo sapeva e non se ne rallegrava,  perché diverso non è meglio, a volte non è peggio, certamente è complicato. 

Ma poi diverso da cosa o da chi o perché, direte voi? Certamente la diversità non era riferibile al suo orientamento sessuale, Venanzio in quell’ambito era il più tradizionalista dei tradizionali, un vetero-etero con venature fantastiche.

E quindi per provare a raccontare di lui e di quelli come lui, che speriamo siano pochi con un nome del genere, partiamo dal perché, ché è sempre necessario capire le ragioni di ciò che accade, ché é questo che distingue i geni dai pirla, e la risposta qui non lascia spazio a dubbi ed è una sola, categorica ed imperativa per tutti: “non lo so!”.

Io non faccio né lo psicologo, né il sociologo, né il fruttivendolo, io perché Venanzio è diverso dagli altri non lo so. Inutile girarci intorno, diciamolo subito che non voglio creare facili aspettative, so che lo è ma non so perché.

Io so che Venanzio è uno che piuttosto che accontentarsi di ciò che non lo aggrada “prende su anche da solo e va” (tipica locuzione romagnola che sta per “decide all’improvviso, anche in solitudine, e si avvia verso dove lo porta il cuore”). Venerdì ad esempio l’ho incontrato a Sant’Arcangelo, seduto ai tavolini de “La Vermuteria della Sangiovesa” che beveva un Carpano Rosso Classico, mangiava piadina arrotolata con ciccioli vegani e leggeva un’articolo sulla Lonely Planet dal titolo “scoprire Alassio in due giorni”. Più che diverso dite strano? Non so nemmeno questo in realtà, ma non credo, se una persona ha voglia di godersi pezzetti di bello, bere vino aromatizzato, leggere, passeggiare, incantarsi al tramonto, senza per forza accompagnarsi ad inappaganti circostanze surrogati del vero desiderio, e per questo vagheggia in solitaria, è forse strano?

O “peggio strana” era la coppia di fianco a Venanzio? Lui sui 45, lei sui 43, lui castano semicalvo, lei bionda rifatta, lui sneaker bianche tirate a festa, lei tacco dodici da battaglia, lui silente, lei silente annoiata, lui con lo sguardo perso di chi pensa ad Italia-Germania 4 a 3 e “sarebbe bello qualcosa del genere anche in questo Europeo”, lei che pensa ad Italo il Personal Trainer della Extragym 24 e “sarebbe bello qualcosa del genere anche in questo Europeo”. Una coppia di esseri soli in compagnia, quattro parole in venticinque minuti, di cui l’ultima è stata “andiamo” senza punto interrogativo pronunciata da lei quando era già a metà del porticciolo d’uscita e lui ancora al tavolo a fissare lo schermo del Samsung A3 blu. Non erano forse più soli loro di Venanzio il diverso? Forse no, ma qualche dubbio a me che faccio l’osservatore viene.

E che dire di quella tavolata di amici urlanti e mezzi ubriachi? Anzi tutti mezzi tranne uno che era proprio sbronzo da paura. Ecco questi nella loro caciara sembravano i più felici, donne, uomini, insieme e separati, accumunati dall’alcol, dalla musica, dalla conoscenza in alcuni casi pluriennale in altri giornaliera (quello sbronzo pareva non conoscerlo davvero nessuno, un imbucato dell’ultimo minuto). Ma coltivare l’amicizia non è sempre semplice, serve dedizione quasi e come nella coppia, serve forse persino più lealtà, e serve anche un po’ di culo per aiutare le circostanze.

Venanzio di amici veri ne ha davvero pochi, migliaia di conoscenti,  centinaia di colleghi, ma amici veri pochi, credo li si possano contare nelle dita di una mano, e anche quella resta abbondante. Colpa sua? Può essere, ma tant’è. Colpa loro? Può essere, ma tant’è. Colpa di nessuno? Eh no, di qualcuno è sempre colpa.


La piazza di Forlì, Artemio che limona e i ristoranti chiusi

E’ un po’ come quando chiude un ristorante fuori porta in cui eri abituato ad andare regolarmente perché ti piaceva un sacco e ti capita di passare di fronte a distanza di tempo, e lo trovi così, abbandonato, sporco, con cumuli di pubblicità accatastati sulla soglia, un sollecito della Tari che si ostina accartocciato fuori dalla buchetta, l’insegna sbiadita con una cacca di piccione tra la O e la S di “Osteria dei poveracci”, le vetrine opacizzate dal tempo e dalle goccioline di mille piogge cadute durante l’inverno, quel panorama mozzafiato che si gode dal vecchio gazebo ancora in piedi nonostante tutto, il silenzio, quel silenzio stronzo che sa di nulla, di perso, di passato, di grigio, di fallito, di cappelletti in brodo di dado e pure freddi.

Insomma, una sensazione che piacevole non mi pare proprio un termine adeguato per descriverla, ma era questo ciò che Artemio provava i quei giorni sospesi (sospesi non so dove e non so perché, ma ho sempre adorato leggere ste robe così che non sai bene cosa stanno a significare ma fanno profondo, perciò ora che ne ho avuto l’occasione l’ho pure scritta - nda).

Artemio è un ragazzo di poco più di cinquant’anni, ha fatto le elementari con Venanzio che chi mi segue ne ha già sentito parlare, ora i due si salutano a fatica, per nessun motivo in particolare, ma solo perché si sono persi di vista come spesso capita tra compagni delle elementari, passano gli anni, cambiano le vite e si diventa semi sconosciuti. Artemio si è dimenticato pure di Rosalina, quella bellina del primo banco, con i codini e gli orecchini di madreperla primi anni ‘80, quella a cui aveva dato un bacino sulla guancia appena sceso dal pulmino l’ultimo giorno di terza, in un primordiale impeto da “o la va o la spacca”. La spaccò, Rosalina non gli rivolse più la parola per tutta l’estate e nemmeno per il primo quadrimestre di quarta, poi a fine dicembre si trasferì a Campobasso dai nonni e da lì comunicare sarebbe stato ancora più difficile pur volendolo, e non dobbiamo dimenticare che lei non voleva, ed è  probabilmente questa la ragione pur cui Artemio non si ricorda più di Rosalina, rimozione selettiva da orgoglioso umiliato.

Ma pur se oggi non ricorda né la bimbotta né l’episodio, qualche strascico è rimasto al nostro sventurato amico per via di quel bacio innocente, rubato e nient’affatto gradito (e questo è il giusto ordine degli aggettivi: prima innocente e poi rubato e poi nient’affatto gradito): ad Artemio è venuto il “blocco del limone”, fino a ventiquattro anni non è più riuscito a baciare una ragazza. Oh ma niente proprio, quasi fosse allergico! Non che non lo volesse eh, sia chiaro, ma proprio non ci riusciva, sopraffatto dallo spettro di un nuovo rifiuto partiva perdente in partenza, e dire che aveva pure un bel sorriso, denti bianchi e alito profumato, tutto a posto insomma, ma niente, il primo bacio vero Artemio riuscì a darlo il giorno del suo ventiquattresimo compleanno,  anzi riuscì a farselo dare per l’esattezza.

Fu una roba intensa, diciotto minuti e ventisette secondi di vorticoso scambio di lingue con diversi momenti di apnea, lei si chiamava Ornella, era di Porto Recanati, faceva la gommista ma aveva studiato lettere e filosofia a Urbino, braccia possenti, labbra di fuoco, cervello fino e tette rifatte, che Artemio si limitò a sfiorare da sopra la maglietta tra il minuto sei e il minuto sette. La loro storia fu breve, ventotto minuti in tutto, praticamente più dei tre quarti del loro stare insieme lo passarono a baciarsi, poi finì, “troppo diversi” disse lei. Ornella era una con le idee chiare.

Dopo l’arrivo (e la partenza) di Ornella Artemio si sbloccò, e da allora non ha più smesso di baciare. Un dispensatore di saliva, un professionista del bacio a domicilio (preferiva infatti baciare a casa d’altri) con una tecnica via via perfezionata: giusti tempi, giusta rotazione della lingua, soprattutto giusta velocità di rotazione, occhi aperti e distaccati quanto basta, leggeri morsetti sulle labbra, mani tentacolari ma non invadenti (perché non si bacia solo con la bocca ma con tutto il corpo sia chiaro), la giusta quantità di aria e il sorriso sempre pronto.

Artemio sorrideva poco nella vita, soprattutto dentro, ma sempre lo faceva mentre baciava, anche se felice davvero lo fu solo una volta.

Tra i tanti têt â têt in cui si cimentò gliene capitò uno “molto più tanto” degli altri, fu così, all’improvviso in piazza a Forlì, faceva caldo o faceva freddo ora non ricordo (Artemio mi ha raccontato ma è uno che parla veloce e spesso perdo dei pezzi), probabilmente faceva tiepido, e il nostro si trovò ad uscire un po’ brillo un po’ perso da un localino caratteristico con le sedie spaiate e colorate, era con lei, una di cui non ricordo il nome ma che ricordo mi descrisse così: “era bella, e sappi che portava tutta quella bellezza con una noncuranza che te rimanevi lì che non sapevi dove mettere le mani, ed era bionda o mora o dipende che te anche in quel caso non sapevi dove mettere le mani, ed aveva un culo che le gambe e lo sguardo e le labbra e le mani e la borsa di pelle morbida e il tono di voce e la sigaretta sdrucita, oh… che te ancora una volta non sapevi dove mettere le mani. Capito?!”

E io che non avevo capito gli chiesi: “Ma allora le mani dove le hai messe?”.

E sapete cosa mi rispose Artemio? “Addosso gliele ho messe, addosso ovunque, perché nel dubbio dell’attimo e contemporaneamente nella certezza che sarebbe finita di lì a poco, e poi nella fretta, nel caos, in quella piazza con i lampioni col fascio littorio, e quella calamita che era il suo corpo, col sapore di ribolla biologica che diciamo al mondo esiste di meglio ma non ti frega un cazzo, io volevo toccarla oltre che baciarla, sentirla, abbracciarla, stringerla, carezzarle il viso, morderle il naso, ridere dentro e non solo fuori, ridere dentro come non mi era mai capitato, fare lo scemo, il serio e il coglione e continuare a sentire il suo profumo pure un’ora dopo, pure il mercoledì dopo, pure a settembre, pure nel 2028”

Ecco è così che successe, e qualcuno di voi ora si chiederà: “E quindi? Qual è la morale di questa storia? E che c’entra il ristorante chiuso? E le elementari e il collegamento con Venanzio?”

La risposta è semplice, la morale non c’è, c’è solo che bisognerebbe evitare di baciarsi in piazza a Forlì dopo aver bevuto troppo o troppo poco, ché poi non lo dimentichi mai più quel bacio, e se proprio si deve…. bisogna farlo senza mani, perché toccare è pure meglio di guardare. Quanto ai ristoranti chiusi posso solo dirvi che a me mettono tristezza, e pure malinconia, volevo si sapesse e l’ho scritto e credo che Artemio potesse  ben rappresentare ciò che volevo dire. Poi c’è Venanzio, e per lui aggiungo solo che i compagni di classe non si scelgono, semplicemente te li ritrovi, come succede con i parenti e con la Giardia di Finanza.



Potevi dirmelo prima

Così vestiti da trekking, alle 7.45 di una domenica mattina nebbiosa a metà, mano nella mano entrando alla Mokador per la colazione, facevano bello. 

In sottofondo Coca Zero dei Pinguini Tattici Nucleari, che non ho capito bene da dove uscisse ché la musica quella mattina al bar non c’era, forse erano i postumi della festa della sera prima a cui non era andato a dargli quella sensazione.

“Dai vieni ti prego..”
“Davvero no, non mi va, ho le gengive infiammate…”
“Dai non fare lo stronzo, che devi fare?”
“Andare al cinema”
“Stasera? Da solo? Ma dai, ma a chi lo racconti? Dimmi che non vuoi uscire con me piuttosto, anche se davvero non capisco come sia possibile!”
“Non voglio uscire con te”
“Dici sul serio?”
“Si”
“Coglione”
“Grazie”
“Fottiti”
“Delicata”

Ecco così dovrebbero essere i dialoghi per evitare fraintendimenti, invece lui non fu così netto, non voleva dispiacerle, voleva che lei lo capisse da  sola che non ce n’era e voleva si rendesse conto che il problema era lui non lei, così magari alla festa avrebbe incontrato il vero uomo della sua vita, due anni più giovane, che l’avrebbe pure sposata e con cui avrebbe fatto un figlio, magari anche tre.
Perché in fondo lui è così, un buono che finge di avere il cuore duro, e dirle “no, non voglio uscire con te” gli faceva brutto, e anche in quell’occasione si inventò mille scuse, la cui credibilità rasentava il niente, ma lei volle credergli ugualmente e disse: “sarà per la prossima”.
La prossima.
L’idea di dover gestire un’altra richiesta di appuntamento che sarebbe arrivata di lì a qualche giorno non lo esaltava, ma in fondo ci si era cacciato da solo in quella situazione e comunque sia chiaro, le gengive infiammate le aveva davvero e pure al cinema voleva andare, perché lui è un sincero, questo è certo.

La coppia di podisti innamorati da collina ha scelto un tavolo d’angolo, angolo verandato, così che sia la luce naturale ad illuminarli.
Pure mentre bevono il cappuccino si tengono la mano anche se questo complica la logistica della colazione, lei soia e lui latte vaccino, lei una girella integrale noci e cannella, lui una sfogliata alle pere volpine intinte nel passito di Pantelleria riva gauche anno 2021.
Pensate che pur avendo a disposizione persino “il Resto del Carlino”, lui lo ignora e si ostina a guardarla negli occhi mentre beve il cappuccio… oh innamorato vero si direbbe osservandoli da qui!
Sono proprio belli, e fanno pure un po’ invidia, ma un’invidia buona, non una roba “spero che vi crolli la veranda sulla testa così quella mano ve la lasciate maledetti”, ma solo un “ohi dovrebbe essere proprio così, almeno qualche volta, però mi state sulle balle”.

Che poi magari alla festa si sarebbe divertito, nessuno lo conosceva, nessuno a giudicarlo, il tema era ‘70 ‘80 Italian e international style, lei sarebbe stata felice almeno un po’, lui magari a fine serata si sarebbe fermato un paio d’ore da lei (a dormire manco se glielo avesse ordinato il Presidente del Consiglio in persona) e tutto si sarebbe risolto in quella banale normalità che tanto rasserena la vita di tutti, con reciproco scambio di fluidi e finte frasi dolci di circostanza, tipo “mi hai fatto stare bene”, detta giusto due toni di voce sotto la media per fare romantico  ma più o meno con la stessa enfasi che si utilizza per il Gaviscon quando ti allevia il dolore gastrico:  “mi hai fatto stare bene caro il mio sodio alginato”.

Oggi c’è il sole, i nostri amici del trekking di coppia hanno avuto una bella idea, io spero siano andati alle cascate dell’Acqua Cheta, non so perché lo spero ma mi sembra una bella cosa da fare il 28 aprile, sono certo lo avrebbe fatto pure il nostro protagonista se non avesse avuto le gengive infiammate, e spero pure che abbiano limonato duro vista cascata, e spero anche che lui le abbia lasciato finalmente la mano e abbia approfittato per piazzargliela sul culo mentre la baciava, perché si fa così quando si bacia davvero, chiaramente dopo aver mangiato un panino integrale con prosciutto toscano crudo e bevuto vino in calici di plastica (modello gita fuori porta per alcolizzati in erba) in un pranzo al sacco si, ma consumato con stile.

“E questa sera ci sei?”
“No, questa sera non ci sono, e non ci sarò nemmeno la prossima volta, mi spiace…”
“Potevi dirmelo prima”
“E’ vero potevo dirtelo prima”

Ed è così che trascorse un nuovo giorno…








Venanzio e la Gilda. Anzi: "Venanzio. La Gilda.", che sono due cose separate da sempre e per sempre e che un giorno per caso si sono incontrate senza mai incontrarsi davvero.

Com'è che si chiama quando non sopporti più tutti quelli che parlano… parlano… parlano…? 
E si lamentano… lamentano… lamentano…?
E lagnano… lagnano… lagnano…?
Ripetendo all'infinito gli stessi concetti inutili, triti e striduli, che poi concetti è un’iperbole, con quelle voci fastidiose, che aumentano di tonalità mano a mano che il soliloquio prosegue, che non mettono né punti, né virgole e né punti e virgola. 
Che all'inizio provi ad inserirti in quella specie di dialogo ma non ci riesci, primo perché a questi non frega nulla di ciò che avresti da dire e quindi non ti lasciano spazio per entrare, e secondo perché a te non frega nulla di quello che loro stanno dicendo e c'hai provato solo per educazione a dare un tuo contributo.
In verità c’hai provato per poco e poi basta, perché ad un certo punto hai piantato lì quello sguardo perso da ebete collerico a cui sta montando un'istinto omicida che manco John Wick che guarda la sua matita, ti sei perfino alzato per stemperare (che con matita ci sta), sei andato in bagno a fare la pipì e a lavarti il viso (prima le mani s'intende), ripresentandoti dopo un quarto d'ora, e loro ancora lì che manco si sono accorti della tua assenza, stessa identica e ridondante lagna.
Come si chiama? Misofonia? No perché misofonia è poco, perché in queste situazioni non è solo il suono a dar fastidio, è proprio quello che dicono ad essere insopportabile, secondo me si chiama miso-rompi-palle-gia.
Peggio di questo c'è solo che si mettano a toccarti mentre parlano, in quel caso sarebbe davvero due gradini sotto la morte violenta, non voglio nemmeno pensarci.

Ecco, questo fastidio stava diventando sempre più insopportabile per Venanzio (che in realtà si chiama Giorgio ma gli amici lo chiamano Venanzio, perché non lo so, ma è così da sempre), tanto insopportabile da costringersi ad una vita sempre più raminga e solitaria.
Non è chiaro se sia stata la solitudine a cui si era via via abituato a portarlo a quel punto di intolleranza o se sia stato il fato a fargli incontrare solo scassamenti di minchia tanti e tali da fuggire dalle interazioni sociali, non è chiaro ma quella era la situazione. L'incontrovertibile situazione direi.

E dire che Venanzio era un grande, uno dalle grandi potenzialità, glielo dicevano tutti: "Tui hai un futuro Venanzio, nonostante sto nome orrendo". 
Tutti si rivolgevano a lui ogni volta che c'era un problema, "Venanzio mi aiuti? Venanzio che dici? Venanzio mi ascolti? Venanzio ti prego!", Venanzio di qua, Venanzio di là, “Venanzio salvami, Venanzio tu mi capisci, tu mi calmi, tu mi piaci, cosa farei senza di te”. 
Venanzio era nato e cresciuto con le stimmate del salvatore della patria, degli uomini, e pure delle donne.
Soprattutto delle donne, un sacco di donne volevano farsi salvare da lui, aiutare, risolvere, confortare, pure trombare (perché non gli veniva male, almeno così dicono), ma poi una volta risolte, confortate, aiutate, salvate e trombate quanto necessario, sparivano e fuggivano con il meccanico di Via di Sotto n. 3, uno buono solo a fare il bello e maledetto con le mani sporche di grasso, però divertente e un gran ballerino.
Sparivano e fuggivano per poi riapparire di fronte ad un nuovo disagio, che il meccanico mica sapeva come risolverlo il disagio. 
E lui sempre lì, pronto ad ascoltare, proprio non riusciva a fregarsene, mai fino in fondo, perché sta cosa di salvare il mondo un pochino lo esaltava.
Venanzio probabilmente era un narcisista, che anche se non so esattamente cosa mi rappresenta un narcisista mi pare che ultimamente questa definizione vada molto di moda, perciò Venanzio - che alle mode ci tiene con quel suo stile "vagamente" eccentrico - era sicuramente un narcisista e sta vita di gomma sempre in prima fila (gomma in parte bruciata) se l'era un po' cercata.

Un giorno Venanzio incontrò Gilda, bella, oh ma bella di un bello che davvero così bella una ragazza bella non si era mai vista, non una modella eh, non la perfezione, no no, un bello particolare, una roba che se tu la guardavi negli occhi non riuscivi a capirne il colore perché erano talmente intensi e profondi e penetranti e furbi e stronzi che tu guardavi ma non vedevi. 
E il profilo? Greco, o forse Irlandese? Sì sì Irlandese, con quel naso alla francese che in Irlanda va per la maggiore, che poi faceva pendant con le labbra, non gommose, sì leggermente inacidulate, ma giusto due gocce di botulino che danno quel tocco di glamour che dopo i quaranta e prima dei cinquanta fa un fascino che Ornella Muti spostati.
Ed il modo di camminare? Vogliamo parlare del suo modo di camminare (pure un po' sul culo sarebbe opportuno soffermarsi, anche più di un po', ma poi questa storia potrebbero leggerla anche i bambini e allora è meglio non esagerare), camminava che tu solo a guardarla arrivare non potevi non innamorarti in zerodue, non la falcata alla Schiffer anni '80, ma una camminata alla Gilda anno duemilaventuno-duemilaventidue, leggermente ondeggiante, veloce, indaffarata, la gamba lunga e imperfetta come lo strabismo di Venere.
Io Venere in realtà non la conosco, ma so che era leggermente strabica e sicuramente - essendo lei la dea più bella dell'Olimpo e della terra -  se avessi avuto occasione di incontrarla da vicino sono certo avrei avuto modo di constatare che le gambe e l'andatura fossero quelle della Gilda, ca va san dire.

Ma ciò che della Gilda faceva davvero impazzire, ciò che la rendeva bella ma proprio bella tra le belle, come l'ho descritta poco fa, era il profumo di libertà che emanava da ogni dove. Anche dai capelli. 
Opportunista come i gatti, intelligente, sveglia, fragile, piena di contraddizioni e debolezze, spesso bugiarda a fin di bene e pure a fine di paraculaggine, ma libera di un libero che avrei voluto io averne anche solo l'infinitesima parte, quella più piccola, una stilla della libertà della Gilda per conquistare il mondo.
Gilda era libera dentro, quello le leggevi negli occhi, occhi colore di libertà, ecco qual era il colore che prima non ricordavo. 
Libera dentro pur essendo imbrigliata fuori, imbrigliata da mille doveri, doveri di donna, di madre, di vita, di lavoro, di perché, di musica, di corsa, di fatica, di gioia. Libera ed innamorata di ciò che apparentemente non aveva ma che in realtà possedeva come nessun'altra mai avrebbe potuto.
Libera e indipendente.
Libera e spavalda, alle volte perfino strafottente, di un'arroganza formalmente gentile ma tagliente, libera e risolutrice, libera e capace di dare (a chi voleva) un'intensità che Ampére secondo me pensava a lei quando studiava l'elettrodinamica. 

Venanzio incontrò Gilda un giorno per caso, sì insomma un caso non troppo fortuito e forse spintaneo, ma la incontrò, adesso non stiamo qui a raccontare i dettagli che poi non c'è spazio e questa storiella devo farla finire prima delle sette ché l'ho iniziata che non avevo niente da fare ma poi devo andare a cena con Tommaso, la incontrò per strada, una strada sociale, un po' on-line e un po' faccia, e si diedero appuntamento lì su un'altra strada, anzi in un parcheggio, anzi in un posto trafficato vicino ad un parcheggio che stava vicino ad una strada che vendeva insalata fresca (il posto non la strada), insalata fresca e pollo a pezzetti per arricchire l'insalata e acqua naturale per saziare la sete, si incontrarono in fretta che il tempo era poco, come sempre sarebbe stato poco tra lei e Venanzio, spesso niente in realtà, e lui rapito (sarebbe meglio dire rincoglionito) da tutto quel bello che i dettagli li ho già raccontati, la baciò. 
Così, con la lingua, a tradimento, un tipico bacio di Venanzio che bacia Gilda per la prima volta, variante goffa del bacio alla francese (sti francesi che ritornano in questo racconto sarebbe da indagare il perchè), un bacio con la lingua ma poca, quasi a dire "sì ti bacio ma non è una cosa seria", giusto la punta.
Gilda lo guardò, "ohi, mi hai baciata" (disse proprio ohi, diceva sempre ohi la Gilda), "eh già" disse lui, con lo sguardo contrito ma non troppo.
Non avrebbe dovuto farlo, perché il bello così bello che vaccaboia com'è bello non si bacia, perché poi non te lo dimentichi più, ma proprio più, e dopo diventi misofobico o miso-rompi-palle-gico come ho meglio precisato, e anche orso (questo lo aggiungo ché a sto punto della frase ci sta bene) perché baciare la Gilda è baciare la libertà, e come cazzo fai a dimenticarti di quanto è bello baciare la libertà?? Non lo fai, semplicemente non lo dimentichi.

La libertà affascina, innamora, travolge, sconvolge, toglie il sonno, cambia le persone che non l'hanno mai davvero avuta, la libertà quella vera, quella intellettuale, quella sentimentale, quella emozionale, quella motivazionale, quella innata, sognata, difesa, custodita, racchiusa in quello sguardo incredibilmente stronzo quanto dolce, rapisce chi ha la fortuna più sfortunata che si possa immaginare e che si può riassumere in dieci parole, una virgola ed un punto: "un giorno l'ha incontrata, anche se solo per finta."

Dopo quel bacio si videro ancora il Venanzio e la Gilda, ancora per un po', ogni tanto, per qualche tempo, quando si poteva e quando non c'era niente di meglio di fare, senza impegno, spesso di nascosto dagli altri e qualche volta anche da se stessi, mai insieme e sempre per caso, in attesa di qualcosa di nuovo, senza mai correre il rischio di viversi davvero, in attesa della vita quella vera, in attesa del ritorno, della ripartenza, dell'ancora, del mai. 
Si videro sì, ancora per un po', con lei ad esaltare le impossibili diversità e lui quasi a convincersi che fosse così. 
Entrambi a raccontarsi le loro storie, lei omettendo e lui strabordando, lei divagando e lui straparlando allo scopo di raccontarle davvero chi era senza mai riuscirci fino in fondo, lei vivendo anche a lato e lui cercando di risolvere non si capisce bene cosa (tra l'altro senza riuscirci), lei mentendo, lui fingendo di non sapere.
Venanzio era lì, e Gilda era là, lei così incontenibile e lui così salvatore, lei così annoiata e lui così abitudinario (diceva lei), lei così bella e lui così assurdo. 
Due opposti che non si attraggono se non per qualche imperscrutabile e occasionale ragione, che poi non è ragione ma solamente "boh?".

Ecco è così che è andata l'inutile storia del Venanzio e della Gilda, l'ho inventata oggi pomeriggio al bar del porto" di fianco ad un battello che si chiama "Amarcord (Gilda), ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone davvero esistite è uno scherzo del destino, e mi scuso per questo con tutti i Venanzio e anche con tutte le Gilde, con i Giorgio un po' meno che in fondo sono solo stati sfiorati dai fatti, se qualcuno si riconosce in queste pagine si sbaglia, perché questa storia non è mai esistita, lo giuro io che lo so, non è mai esistita davvero, è solo frutto della mia (malata) fantasia....
Ci tenevo a precisarlo.

P.S.: ci tengo a ringraziare anche il parcheggio che ha fatto da location al primo bacio tra Venanzio e Gilda, l’ho rivisto settimana scorsa, è ancora lì nonostante il PNNR.





 

La storia di un ragazzo e una ragazza, una sedia a dondolo ed una bottiglia di "Punt e Mes" che incontrano un insonne cronico innamorato dell'unicità in una serata uggiosa di fine febbraio

Punt e Mes, un punto di dolce e mezzo di amaro Carpano, questa la definizione precisa coniata per questo vermuth d'antan, vintage come i colori della bottiglia, rosso antico su sfondo bianco, vetro verde classico, il tappo in alluminio vermiglio o rosso acceso scarlatto per i profani. 

L'aperitivo degli insonni aveva detto qualcuno.

L'insonnia sì, ecco qual era  il problema, oddio problema, considerato che la cosa andava avanti da mesi, diciamo in maniera più o meno controllata, più che un problema si potrebbe dire fosse la situazione standard, la situa come la definirebbe un boomer che si atteggia a millenials. 

Luì soffriva d'insonnia.

Perchè? Mah le ragioni credo possano essere disparate, o disperate se volete, la più plausibile è una confusione dei ritmi circadiani del sonno, dal latino circa diem, che poi vuol dire "intorno al giorno" (lo dice Wikipedia mica io quindi deve essere vero), ma la cosa potrebbe essere conseguenza, anzi certamente lo è, della vita intasata che stava conducendo da tempo, o sregolata se vi piace di più, sregolata e abitudinaria, abitudinaria e sregolata, tutto contemporaneamente.

Questa apparente contraddizione, la sregolatezza dell'abitudine intendo, abbiamo quindi convenuto è la prima causa dell'insonnia di Luì, e a ciò si deve poi aggiungere la produzione incontrollata di pensieri confusi, un vero e proprio affastellamento di sinapsi, una roba che partendo da una frase ascoltata per caso in mezzo a un profluvio di coincidenze deraglia in zero due in un castello di supposizioni, spesso infondate, ma a volte - parecchie volte - prodromiche alla verità, e comunque materia d'incontrollabile analisi notturna.

Quella sera non fece eccezione. Paolo Fox lo aveva avvisato, "c'hai la luna contro", proprio così aveva detto l'astrologo paraculo, "c'hai la luna contro, cerchi la polemica, con tutti, anche con te stesso, non stare lì a rimuginare che fai solo casino, lascia stare, verranno tempi migliori, lo so che lo sai che ti hanno raccontato un sacco di cazzate e tu hai fatto finta di credere a tutto, ma porta pazienza, vedrai ad aprile 2039, dai, non avere fretta", ma Luì che del Paolo nazionale era un fans sfegatato nonostante avesse cercato in diverse occasioni di cacciarlo sotto con la macchina, la pazienza l'aveva finita. E sì il 2039 non era poi così lontano, bisogna dirselo, ma visto che attendeva una svolta dal 1988, perché si ricordava perfettamente quel 31 dicembre da Magalli in cui il maledetto aveva posizionato l'Ariete al 2° posto assoluto della classifica dei segni più fortunati del mondo, questo nuovo rimando non fece altro che aumentare la sua ritrosia al sonno.

Agata non c'era, era partita per le Maldive insieme a Giulia, la sua migliore amica, un viaggio premio di ventotto giorni gli aveva detto, "premio per chi?" aveva pensato lui senza dirglielo, e questo comunque significava che non avrebbe potuto chiamarla per sfracellarle i coglioni, non poteva rovinarle la vacanza, già la tediava senza sosta quando stava in Italia, un superpippone internazionale proprio non poteva farglielo, anche perchè Agata non avrebbe mai risposto al telefono, aveva messo le mani avanti prima di partire: "Non provare a chiamarmi, io te l'avevo detto che stavi facendo l'ennesima cazzata, ora ti arrangi".

Agata aveva il dono della sintesi al contrario di Luì, poche parole, concetti chiari e chiave e chi vuol capire capisce. Luì nove volte su dieci non capiva, anzi Luì nove volte su dieci fingeva di non capire. 

Pioveva, una di quelle pioggerelline noiose che fanno tanto ottobre inoltrato anche se in realtà non era terminato nemmeno febbraio, pioveva e tirava vento, di fronte al Duomo una coppia di ragazzi portava a spasso una sedia a dondolo (giuro, proprio così portavano a spasso una sedia a dondolo, avete letto bene), lui serissimo, leì bella, molto bella, sorridente, i capelli lunghi e biondi e con una berretta finto kashmire grigio topo, incontrandolo lo guardarono in modo strano, quasi sorpresi e straniti di vederlo lì, sorpresi loro capito? Come se passeggiare alle 23.45 di un lunedì qualsiasi con una sedia a dondolo marrone sotto braccio, dopo essersi fotografati fronte edicola, fosse una roba da tutti i giorni. Il selfie col dondolo, robe da matti!

Pioveva e Luì passeggiava, la sedia ormai lontana insieme ai suoi portantini lasciò spazio a quel silenzio umido. Silenzio fuori, silenzio dentro, silenzio tutt'attorno, inquietante per molti, as usually per Luì, il silenzio della sera si dimostrò ancora una volta il più fidato dei compagni (cavoli questa nemmeno Pascoli l'avrebbe scritta meglio!). 

Molti anni prima una donna di nessuna importanza ma con cui avrebbe avuto a che fare giocoforza per tanto tempo ancora, gli disse: "Ho vissuto molto, forse pure troppo, ho ballato scalza, ho bevuto vodka e respirato eccessi, ora voglio solo normalità". Mentiva, aveva vissuto molto sì ma non cercava la normalità, cercava solo la comodità, Luì invece no, della comodità se ne era sempre strafottuto le balle, Luì cercava solo un'emozionata ed emozionante unicità. Cercava unicità e aveva trovato il silenzio, il silenzio e l'insonnia.. probabilmente più di qualcosa era andato storto.

Il rischio vero per le persone come Luì è di abituarcisi a quel silenzio, è di abituarcisi a quell'insonnia, è di abituarcisi a quell'assenza di unicità pur continuando a cercarla come un matto e sempre nella stessa direzione. Il rischio vero per le persone come Luì è di non avere più voglia di correre il rischio di regalare pezzetti di sé a chi non vuole scoprire l'insieme e te lo dice quando è troppo tardi.

Insieme, è una parola bellissima, alle elementari la odiavo con tutti quei finito-infinito-vuoto-disgiunto, poi crescendo, ma crescendo parecchio, ho iniziato ad apprezzarne la potenza, se oggi dovessi dare una definizione di insieme direi: "un insieme è un raggruppamento di quattro piedi che si avvicinano sfiorandosi sotto una coperta calda tendente all'infinito".

La domanda vera a questo punto però è un'altra: "ma la sedia a dondolo, quei due, dove l'avranno portata?"


Batman


C’era una volta un ragazzotto che si era convinto di essere un supereroe. 

Passò i giorni a risolvere problemi più grandi di lui, certo di poter e dover salvare il mondo che gli girava attorno imparò ahilui a non aver paura di nulla, concentrato e perseverante macinò soluzioni progettando la vita anziché crescere serenamente come si confà a quell’età, capace solo di rimandare il piacere a momenti migliori che non arrivarono mai, credette - illudendosi - di essere financo in grado di rallentare il tempo tanto da poterlo fermare.

Si convinse, il tapino, di essere totalmente autosufficiente, infallibile, onnisciente e predestinato a grandi cose. 

Un pataca insomma, nel senso deteriore del termine.

Collezionò emozioni vissute costantemente a metà, inseguì desideri diventando grande due passi per volta, bruciò le tappe camminando sulle braci di fuochi tanto intensi quanto inutili. Si lasciò travolgere dall’impossibile credendo di poterlo governare,  sopravvalutò le proprie capacità in afflati di spasmodica vanità, si convinse di essere Batman.

O tutto o niente, o quello o niente, il massimo o niente, o vittoria o niente, o brivido o niente, vinse il niente.

Si accorse di aver perso, se ne accorse un giorno per caso, quando rincasando dopo l’ennesimo slalom tra i gorghi del quotidiano in cui si era cacciato, richiuse la porta dietro di se ed ascoltò il silenzio. 

Viveva a metà in una casa costruita a sua immagine e somiglianza, tra cumuli di ordinata, presuntuosa e pomposa vetustà, immerso in un mondo di antichi suppellettili solo apparentemente gettati a caso sul pavimento o aggrappati alle pareti, ricordi di un passato che non passava, di una vita mai davvero  vissuta, il tutto avvolto in un assordante silenzio che aveva gradualmente inghiottito la voglia di avere voglia.

Fu allora che si accorse di non avere più niente da dare, più niente da offrire e nemmeno più niente da prendere, a nessuno e da nessuno, un supereroe senza più super e senza più  eroe. Un noioso, banale e scontato cliché, vittima di un ego apparentemente gentile e smisurato, in realtà fragile, costretto  ed ostinato al limite del comprensibile.

C’era una volta un ragazzotto che credeva di essere Batman, che nascosto dietro ad una stoica e buffa maschera da pipistrello ( 🦇 ) lasciò il posto all’ultimo dei Robin di turno, senza più sogni né velleità, senza più sorriso né mantello.