Racconto incompiuto, senza capo né coda, che non doveva essere pubblicato ma il destino ha fatto sì che fosse pigiato il tasto errato.

“Te sei diverso, uno su un milione…”, che detto da una donna alle 11.02 di un sabato mattino qualunque non so se lo si può considerare un complimento.

Diverso…. Venanzio d’istinto rispose: “purtroppo!!!”, e fu una risposta d’istinto ma anche convinta, quel diverso se lo portava dietro da sempre, lo sapeva, lo sapeva e non se ne rallegrava,  perché diverso non è meglio, a volte non è peggio, certamente è complicato. 

Ma poi diverso da cosa o da chi o perché, direte voi? Certamente la diversità non era riferibile al suo orientamento sessuale, Venanzio in quell’ambito era il più tradizionalista dei tradizionali, un vetero-etero con venature fantastiche.

E quindi per provare a raccontare di lui e di quelli come lui, che speriamo siano pochi con un nome del genere, partiamo dal perché, ché è sempre necessario capire le ragioni di ciò che accade, ché é questo che distingue i geni dai pirla, e la risposta qui non lascia spazio a dubbi ed è una sola, categorica ed imperativa per tutti: “non lo so!”.

Io non faccio né lo psicologo, né il sociologo, né il fruttivendolo, io perché Venanzio è diverso dagli altri non lo so. Inutile girarci intorno, diciamolo subito che non voglio creare facili aspettative, so che lo è ma non so perché.

Io so che Venanzio è uno che piuttosto che accontentarsi di ciò che non lo aggrada “prende su anche da solo e va” (tipica locuzione romagnola che sta per “decide all’improvviso, anche in solitudine, e si avvia verso dove lo porta il cuore”). Venerdì ad esempio l’ho incontrato a Sant’Arcangelo, seduto ai tavolini de “La Vermuteria della Sangiovesa” che beveva un Carpano Rosso Classico, mangiava piadina arrotolata con ciccioli vegani e leggeva un’articolo sulla Lonely Planet dal titolo “scoprire Alassio in due giorni”. Più che diverso dite strano? Non so nemmeno questo in realtà, ma non credo, se una persona ha voglia di godersi pezzetti di bello, bere vino aromatizzato, leggere, passeggiare, incantarsi al tramonto, senza per forza accompagnarsi ad inappaganti circostanze surrogati del vero desiderio, e per questo vagheggia in solitaria, è forse strano?

O “peggio strana” era la coppia di fianco a Venanzio? Lui sui 45, lei sui 43, lui castano semicalvo, lei bionda rifatta, lui sneaker bianche tirate a festa, lei tacco dodici da battaglia, lui silente, lei silente annoiata, lui con lo sguardo perso di chi pensa ad Italia-Germania 4 a 3 e “sarebbe bello qualcosa del genere anche in questo Europeo”, lei che pensa ad Italo il Personal Trainer della Extragym 24 e “sarebbe bello qualcosa del genere anche in questo Europeo”. Una coppia di esseri soli in compagnia, quattro parole in venticinque minuti, di cui l’ultima è stata “andiamo” senza punto interrogativo pronunciata da lei quando era già a metà del porticciolo d’uscita e lui ancora al tavolo a fissare lo schermo del Samsung A3 blu. Non erano forse più soli loro di Venanzio il diverso? Forse no, ma qualche dubbio a me che faccio l’osservatore viene.

E che dire di quella tavolata di amici urlanti e mezzi ubriachi? Anzi tutti mezzi tranne uno che era proprio sbronzo da paura. Ecco questi nella loro caciara sembravano i più felici, donne, uomini, insieme e separati, accumunati dall’alcol, dalla musica, dalla conoscenza in alcuni casi pluriennale in altri giornaliera (quello sbronzo pareva non conoscerlo davvero nessuno, un imbucato dell’ultimo minuto). Ma coltivare l’amicizia non è sempre semplice, serve dedizione quasi e come nella coppia, serve forse persino più lealtà, e serve anche un po’ di culo per aiutare le circostanze.

Venanzio di amici veri ne ha davvero pochi, migliaia di conoscenti,  centinaia di colleghi, ma amici veri pochi, credo li si possano contare nelle dita di una mano, e anche quella resta abbondante. Colpa sua? Può essere, ma tant’è. Colpa loro? Può essere, ma tant’è. Colpa di nessuno? Eh no, di qualcuno è sempre colpa.


La piazza di Forlì, Artemio che limona e i ristoranti chiusi

E’ un po’ come quando chiude un ristorante fuori porta in cui eri abituato ad andare regolarmente perché ti piaceva un sacco e ti capita di passare di fronte a distanza di tempo, e lo trovi così, abbandonato, sporco, con cumuli di pubblicità accatastati sulla soglia, un sollecito della Tari che si ostina accartocciato fuori dalla buchetta, l’insegna sbiadita con una cacca di piccione tra la O e la S di “Osteria dei poveracci”, le vetrine opacizzate dal tempo e dalle goccioline di mille piogge cadute durante l’inverno, quel panorama mozzafiato che si gode dal vecchio gazebo ancora in piedi nonostante tutto, il silenzio, quel silenzio stronzo che sa di nulla, di perso, di passato, di grigio, di fallito, di cappelletti in brodo di dado e pure freddi.

Insomma, una sensazione che piacevole non mi pare proprio un termine adeguato per descriverla, ma era questo ciò che Artemio provava i quei giorni sospesi (sospesi non so dove e non so perché, ma ho sempre adorato leggere ste robe così che non sai bene cosa stanno a significare ma fanno profondo, perciò ora che ne ho avuto l’occasione l’ho pure scritta - nda).

Artemio è un ragazzo di poco più di cinquant’anni, ha fatto le elementari con Venanzio che chi mi segue ne ha già sentito parlare, ora i due si salutano a fatica, per nessun motivo in particolare, ma solo perché si sono persi di vista come spesso capita tra compagni delle elementari, passano gli anni, cambiano le vite e si diventa semi sconosciuti. Artemio si è dimenticato pure di Rosalina, quella bellina del primo banco, con i codini e gli orecchini di madreperla primi anni ‘80, quella a cui aveva dato un bacino sulla guancia appena sceso dal pulmino l’ultimo giorno di terza, in un primordiale impeto da “o la va o la spacca”. La spaccò, Rosalina non gli rivolse più la parola per tutta l’estate e nemmeno per il primo quadrimestre di quarta, poi a fine dicembre si trasferì a Campobasso dai nonni e da lì comunicare sarebbe stato ancora più difficile pur volendolo, e non dobbiamo dimenticare che lei non voleva, ed è  probabilmente questa la ragione pur cui Artemio non si ricorda più di Rosalina, rimozione selettiva da orgoglioso umiliato.

Ma pur se oggi non ricorda né la bimbotta né l’episodio, qualche strascico è rimasto al nostro sventurato amico per via di quel bacio innocente, rubato e nient’affatto gradito (e questo è il giusto ordine degli aggettivi: prima innocente e poi rubato e poi nient’affatto gradito): ad Artemio è venuto il “blocco del limone”, fino a ventiquattro anni non è più riuscito a baciare una ragazza. Oh ma niente proprio, quasi fosse allergico! Non che non lo volesse eh, sia chiaro, ma proprio non ci riusciva, sopraffatto dallo spettro di un nuovo rifiuto partiva perdente in partenza, e dire che aveva pure un bel sorriso, denti bianchi e alito profumato, tutto a posto insomma, ma niente, il primo bacio vero Artemio riuscì a darlo il giorno del suo ventiquattresimo compleanno,  anzi riuscì a farselo dare per l’esattezza.

Fu una roba intensa, diciotto minuti e ventisette secondi di vorticoso scambio di lingue con diversi momenti di apnea, lei si chiamava Ornella, era di Porto Recanati, faceva la gommista ma aveva studiato lettere e filosofia a Urbino, braccia possenti, labbra di fuoco, cervello fino e tette rifatte, che Artemio si limitò a sfiorare da sopra la maglietta tra il minuto sei e il minuto sette. La loro storia fu breve, ventotto minuti in tutto, praticamente più dei tre quarti del loro stare insieme lo passarono a baciarsi, poi finì, “troppo diversi” disse lei. Ornella era una con le idee chiare.

Dopo l’arrivo (e la partenza) di Ornella Artemio si sbloccò, e da allora non ha più smesso di baciare. Un dispensatore di saliva, un professionista del bacio a domicilio (preferiva infatti baciare a casa d’altri) con una tecnica via via perfezionata: giusti tempi, giusta rotazione della lingua, soprattutto giusta velocità di rotazione, occhi aperti e distaccati quanto basta, leggeri morsetti sulle labbra, mani tentacolari ma non invadenti (perché non si bacia solo con la bocca ma con tutto il corpo sia chiaro), la giusta quantità di aria e il sorriso sempre pronto.

Artemio sorrideva poco nella vita, soprattutto dentro, ma sempre lo faceva mentre baciava, anche se felice davvero lo fu solo una volta.

Tra i tanti têt â têt in cui si cimentò gliene capitò uno “molto più tanto” degli altri, fu così, all’improvviso in piazza a Forlì, faceva caldo o faceva freddo ora non ricordo (Artemio mi ha raccontato ma è uno che parla veloce e spesso perdo dei pezzi), probabilmente faceva tiepido, e il nostro si trovò ad uscire un po’ brillo un po’ perso da un localino caratteristico con le sedie spaiate e colorate, era con lei, una di cui non ricordo il nome ma che ricordo mi descrisse così: “era bella, e sappi che portava tutta quella bellezza con una noncuranza che te rimanevi lì che non sapevi dove mettere le mani, ed era bionda o mora o dipende che te anche in quel caso non sapevi dove mettere le mani, ed aveva un culo che le gambe e lo sguardo e le labbra e le mani e la borsa di pelle morbida e il tono di voce e la sigaretta sdrucita, oh… che te ancora una volta non sapevi dove mettere le mani. Capito?!”

E io che non avevo capito gli chiesi: “Ma allora le mani dove le hai messe?”.

E sapete cosa mi rispose Artemio? “Addosso gliele ho messe, addosso ovunque, perché nel dubbio dell’attimo e contemporaneamente nella certezza che sarebbe finita di lì a poco, e poi nella fretta, nel caos, in quella piazza con i lampioni col fascio littorio, e quella calamita che era il suo corpo, col sapore di ribolla biologica che diciamo al mondo esiste di meglio ma non ti frega un cazzo, io volevo toccarla oltre che baciarla, sentirla, abbracciarla, stringerla, carezzarle il viso, morderle il naso, ridere dentro e non solo fuori, ridere dentro come non mi era mai capitato, fare lo scemo, il serio e il coglione e continuare a sentire il suo profumo pure un’ora dopo, pure il mercoledì dopo, pure a settembre, pure nel 2028”

Ecco è così che successe, e qualcuno di voi ora si chiederà: “E quindi? Qual è la morale di questa storia? E che c’entra il ristorante chiuso? E le elementari e il collegamento con Venanzio?”

La risposta è semplice, la morale non c’è, c’è solo che bisognerebbe evitare di baciarsi in piazza a Forlì dopo aver bevuto troppo o troppo poco, ché poi non lo dimentichi mai più quel bacio, e se proprio si deve…. bisogna farlo senza mani, perché toccare è pure meglio di guardare. Quanto ai ristoranti chiusi posso solo dirvi che a me mettono tristezza, e pure malinconia, volevo si sapesse e l’ho scritto e credo che Artemio potesse  ben rappresentare ciò che volevo dire. Poi c’è Venanzio, e per lui aggiungo solo che i compagni di classe non si scelgono, semplicemente te li ritrovi, come succede con i parenti e con la Giardia di Finanza.